di Domenico Gallo su Micromega
Anche quest’anno verrà il 25 aprile e come tutti gli anni celebreremo la festa della liberazione. Però questo sarà l’ultimo anno che potremo festeggiare perché stiamo per perdere il lascito più prezioso della Resistenza: la Costituzione. Con la riforma approvata dal Parlamento il 12 aprile e con la nuova legge elettorale, i tratti salienti dell’ordinamento di democrazia costituzionale, che ci hanno lasciato in dote i padri costituenti, saranno spazzati via e sostituiti dalla nuova Costituzione di Renzi/Boschi/Verdini, partorita da una minoranza arrogante con lo scopo di dare all’esecutivo un potere straordinario, senza troppo preoccuparsi di equilibrarlo con poteri di garanzia e di controllo.
Quelli che hanno esultato per questa riforma ci hanno detto che aspettavano questo momento da 70 anni. Evidentemente per loro era sbagliata la lezione della Resistenza.
Il 25 aprile è la festa della liberazione, cioè della riconquistata libertà del popolo italiano. Perché quella libertà, così faticosamente conquistata, non andasse perduta, è stata insediata nel sangue e nella carne di una comunità di uomini liberi, che si è riconosciuta in un orizzonte comune nel quale sono istituiti il pluralismo, l’eguaglianza, la giustizia sociale, la pace, il rispetto della dignità umana.
Quest’orizzonte comune è la Costituzione della Repubblica italiana. La Costituzione è la traduzione nell’ordinamento giuridico dell’annuncio portato dalla Resistenza di una nuova società umana, cioè di un tempo e di una storia nuova in cui fossero risparmiate per sempre alle generazioni future le sofferenze inenarrabili che avevano patito quelle precedenti attraverso le due guerre mondiali, l’olocausto e l’asfissia di una società priva di libertà.
Il 25 aprile ci chiama a confrontarci con il dono della libertà che ci è stato consegnato dalla Resistenza, con quel patrimonio di beni pubblici repubblicani che ci è stato tramandato dalle generazioni passate, come testamento di centomila morti, perché noi lo curassimo, lo mettessimo a frutto e lo consegnassimo, a nostra volta, alle generazioni future.
Ebbene, in quel patrimonio, la giustizia, l’eguaglianza, la dignità umana non sono solo rivendicate, ma sono istituite e garantite attraverso una trama istituzionale che le rende resistenti alle insidie e alle sfide del tempo. Se i principi fondamentali della Costituzione sono antitetici rispetto a quelli proclamati o praticati dal fascismo, tuttavia è l’architettura del sistema istituzionale che fa la differenza ed impedisce degenerazioni autoritarie.
La Costituzione ha insediato la libertà che ci è stata donata dalla Resistenza, rendendo impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”.
Lo scopo di questa straordinaria revisione della Costituzione approvata dal Parlamento il 12 aprile e della riforma elettorale è proprio quello di neutralizzare l’impostazione antitotalitaria della Costituzione del 48, accentrando il potere nell’esecutivo e nel partito unico al governo ed indebolendo i contrappesi e le garanzie. Si può discutere se queste riforme costituiscano di per se stesse una svolta autoritaria ovvero se ne siano solo le premesse. Non v’è dubbio, però, che indebolendo i meccanismi antitotalitari, si indeboliscono le garanzie della libertà.
Tutto questo avviene in un quadro internazionale che non è mai stato così oscuro. È tornata la maledizione della guerra che è diventata endemica in vaste aree del pianeta a noi vicine; è ritornata in auge la tortura; sono tornate le discriminazioni fino al punto da alimentare nuovi genocidi; è tornata la disperazione di milioni di profughi che cercano scampo dalla guerra e si trovano circondati dal filo spinato delle frontiere bloccate. I valori, patrimonio dell’umanità, affermati dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non solo vengono disprezzati ma addirittura sono apertamente rovesciati nel loro contrario e viene rivendicata la disuguaglianza, la discriminazione, la schiavitù.
Sono ritornate di stringente attualità le considerazioni che cinquant’anni fa scriveva Thomas Mann nella prefazione delle lettere dei condannati a morte della resistenza europea: “Viviamo in un mondo di perfida regressione, in cui un odio superstizioso e avido di persecuzione si accoppia al terror panico; in un mondo alla cui insufficienza intellettuale e morale il destino ha affidato armi distruttive di raccapricciante violenza, accumulate con la folle minaccia di trasformare la terra in un deserto avvolto da nebbie venefiche. L’abbassamento del livello intellettuale, la paralisi della cultura, la supina accettazione dei misfatti di una giustizia politicizzata (id est: asservita al potere), il gerarchismo, la cieca avidità di guadagno, la decadenza della lealtà e della fede, prodotti o, in ogni caso promossi da due guerre mondiali, sono una cattiva garanzia contro lo scoppio della terza, che significherebbe la fine della civiltà. Una costellazione fatale sovverte la democrazia e la spinge nelle braccia del fascismo, che essa ha appena abbattuto solo per aiutarlo, non appena a terra, a risollevarsi in piedi per calpestare, ovunque li trovasse, i germi del meglio, e macchiarsi con ignobili alleanze.”
Di conseguenza è ritornato d’attualità l’interrogativo che si poneva Thomas Mann: “Sarebbe vana, dunque, superata e respinta dalla vita, la fede, la speranza, la volontà di sacrificio di una gioventù europea che, se ha assunto il bel nome di Résistence, contro l’onta di un’europa Hitleriana e l’orrore di un mondo hitleriano, non voleva semplicemente “resistere”, ma sentiva di essere l’avanguardia di una nuova società umana? Tutto ciò sarebb
e stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”.
Tocca a noi batterci perché ciò non succeda.
(24 aprile 2015)