Alfonso Gianni – (da Alternative per il Socialismo n.39, marzo-aprile 2016)
Intervenendo alla Direzione del suo Partito, Matteo Renzi è andato giù di sciabola nei confronti della titubante “sinistra” interna. Permettendosi anche il lusso di prendere in giro il suo predecessore. “Una sconfitta al referendum (quello cosiddetto confermativo sulle modifiche costituzionali) non si può affrontare dicendo ‘ho non vinto’ – il riferimento evidente a tutti è alla ‘non vittoria’ di Pierluigi Bersani nelle elezioni politiche del 2013 -. Una sconfitta al referendum segnerebbe fatalmente la mia esperienza. Il mio non è un tentativo di plebiscito ma etica della responsabilità”. Il premier si affida quindi a suggestioni weberiane pur di ribaltare l’accusa scontata di vocazioni plebiscitarie. La performance oratoria non solo non liquida i sospetti più ovvii, ma non elimina la sostanza della critica che gli viene o gli dovrebbe essere rivolta. Quella di schiacciare la questione delle modifiche alla Costituzione sulla contingenza politica, quale effettivamente è la sopravvivenza o meno del suo governo.
Scrivere una Costituzione esige di elevarsi sopra le vicende politiche del momento
Al contrario le esternazioni di Renzi confermano la pochezza della classe politica da lui incarnata. Ai Costituenti d’antan non sarebbe mai venuto in mente di pensare, progettare e scrivere una Costituzione avendo a cuore principalmente la sorte di questo o quel governo. Anzi il loro spirito era quello di guardare ben al di là, sapendo che le regole che stavano costruendo avrebbero dovuto reggere a diverse temperie politiche; avrebbero dovuto proprio garantire che rivolgimenti nel quadro politico potessero avvenire entro un quadro di stabilità e di sopravvivenza dell’ordinamento costituzionale. Tanto erano gelosi del fatto che la Costituzione italiana dovesse garantire il massimo della espressione e della rappresentanza politica che i costituenti limitarono il divieto di ricostituzione al solo partito fascista e non a quello monarchico, pur esplicitando che la forma repubblicana non avrebbe mai potuto essere messa in discussione nemmeno da un procedimento di revisione costituzionale. Lo stesso Piero Calamandrei si espresse in favore della legittimità dell’esistenza di un partito monarchico (Piero Calamandrei, Scritti e discorsi politici, II, Firenze 1966)
Il testo entrato in vigore il 1° gennaio del 1948 è vissuto per diversi decenni in equilibrio fra le esigenze opposte di fissità e di mutamento. Un equilibrio che fino a un certo punto è stato garantito dalle procedure di revisione costituzionale previste nell’articolo 138 Cost. (il cui testo è riportato nell’Appendice al presente articolo). Come osservò il Mortati l’esistenza in una Costituzione di organi o procedure speciali per potere procedere alla sua mutazione sono “mezzi essi stessi di conservazione” (Mortati, Raccolta di scritti, II, Milano, 1972) capaci di fare fronte contemporaneamente al “timore o l’impazienza dei partiti dei conservatori e degli innovatori” per usare le parole di Zagrebelsky (Zagrebelsky, Portinaro, Luther, Il futuro della Costituzione, Torino, 1996). Non a caso quando, a partire dagli anni Ottanta, si cominciò a parlare di una “grande riforma” della Costituzione che la adeguasse al “paese reale”, ovvero codificasse le trasformazione intervenute nella società economica, civile e politica dalla vincente offensiva neoliberista, venne posto anche il tema di un superamento o di una deroga all’articolo 138. Di tale natura sono le leggi costituzionali che nel 1993 e nel 1997 diedero vita a due successive Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali (prima la cd De Mita-Iotti, poi quella D’Alema). Il fallimento di queste ultime riportò in auge l’articolo 138, pur non venendo a mancare tentativi di proporre una modificazione anche di quest’ultimo. Ma, come oggi ben si vede, non spense le ansie di una modificazione sostanzialmente integrale della seconda parte della Costituzione. Le modificazioni della legge elettorale intercorse nel frattempo hanno infatti offerto ai manipolatori della Costituzione un parlamento sempre più affidabile per i loro fini. Ad opporsi a questi ultimi rimane perciò il solo Referendum, che andrebbe chiamato oppositivo, e non confermativo, anche perché venne espressamente pensato fin dalla sua istituzione come uno strumento delle minoranze contro la prevaricazione delle maggioranze in materia costituzionale, con il ricorso diretto alla volontà popolare.
Il tentativo di accorpare il referendum costituzionale con le amministrative
Davvero altri tempi e ben altre temperie culturali. Oggi tale è l’identificazione della propria sorte con l’esito del referendum costituzionale che Renzi sta ponderando l’idea – che infatti circola tra i giuristi legati a Palazzo Chigi – di unificare addirittura la data di celebrazione del referendum con quella delle elezioni amministrative previste per la fine della primavera. Nella illusione che questo faciliti l’afflusso alle urne e gli permetta di vincere in un referendum che, come è noto, non prevede il quorum. Probabilmente, se questo tentativo verrà portato avanti, ci toccherà sentire la solita litania sul risparmio per l’erario statale che ne deriverebbe. Ma mai tale argomento sarebbe più infelice e rivelatore del carattere puramente strumentale e contingente che il governo attribuisce al pronunciamento referendario. Altra cosa sarebbe, questa sì possibile, anzi auspicabile perché le materie non sono incongruenti, se venisse accorpato al voto amministrativo quello sul quesito sopravvissuto contro le trivellazioni petrolifere in mare, promosso da diversi consigli regionali. Tenere ben distinti i momenti stessi del pronunciamento popolare, in modo che non si dia il minimo adito alla confusione o anche alla semplice sovrapposizione fra preferenza politica e scelta costituzionale dovrebbe essere l’archetipo su cui fondare una democrazia.
Il comitato per il No alla revisione costituzionale si muoverà in ogni caso nella direzione di impedire materialmente una simile scellerata decisione, depositando, un minuto dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della nuova legge di revisione costituzionale la richiesta di raccogliere 500mila firme tra i cittadini utili per la convocazione del referendum sulle modifiche costituzionali, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Quest’ultimo infatti prevede che tale referendum, qualora la legge di revisione sia stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere con una maggioranza inferiore di due terzi dei suoi componenti – circostanza certa in questa occasione – possa essere promosso da un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. L’una cosa non esclude l’altra, poiché il diritto dei cittadini di farsi in prima persona promotori di tale referendum, pur essendo medesimo il contenuto, non può essere in alcun modo conculcato, né sostituito da rappresentanti eletti nel parlamento nazionale o nei consigli regionali. D’altro canto vi è un importante precedente che va in questo senso. Quello costituito dal secondo referendum che si tenne sulla modifica del titolo V della Costituzione nell’ottobre del 2001. Poiché l’approvazione della legge di revisione non può avvenire prima della metà di aprile e poiché la raccolta delle firme dei cittadini ha tre mesi di tempo per essere espletata, questo accorpamento ventilato in ambiti governativi con le amministrative che al più tardi possono tenersi a giugno, non potrò avere luogo a meno di non creare un violento conflitto con la stessa Corte Costituzionale.
Le preoccupazioni del Pd sull’esito del pronunciamento popolare
Tuttavia il solo fatto che se ne parli è indice di una evidente preoccupazione da parte del partito renziano. Non esistendo il quorum viene meno il ricorso alla astensione. L’arma di utilizzare la passività, la disinformazione o l’indolenza popolari è del tutto inutilizzabile. Il No combatte contro un unico avversario, il SI, non contro due. E’ un duello non un “triello”, come nel finale di uno dei più famosi western di Sergio Leone. Va anche aggiunto che l’ultimo referendum su materie costituzionali – il premierato voluto da Berlusconi – vide una vittoria netta dei contrari, ma soprattutto un’affluenza alle urne che superò la maggioranza degli aventi diritto, quindi l’asticella del quorum pur non essendo questo necessario. Era la fine di giugno del 2006. Certamente tutt’altra situazione politica e un diverso stato di salute della democrazia del paese, nel frattempo ulteriormente deterioratisi. Ma è pur vero che c’è un ostacolo difficile da sormontare per chiunque voglia manipolare la Costituzione a proprio piacimento, e questo è rappresentato dai cittadini italiani. Ed anche da istituzioni locali, come indica la mozione prevalsa nel consiglio comunale di Pisa contro le modifiche costituzionali, approvata anche grazie ad una significativa spaccatura determinatasi tra i consiglieri del Pd.
Quindi è necessario, per coerenza di principi, ma anche per ricerca di efficacia, guardarsi bene dal cadere nel tranello delle contrapposizioni Renzi Sì – Renzi No; continuità del governo – fine traumatica della legislatura; stabilità – caos. Su questo, come già si vede, la propaganda renziana si spenderà ampiamente e c’è da credere che non si fermerà sulla soglia del video televisivo ma effettivamente cercherà di varcare la casa di ogni elettore. Da qui la scelta dell’entourage renziano di avvalersi della collaborazione di un guru delle campagne elettorali anglosassoni, ove la personalizzazione è d’obbligo, quale Jim Messina, che fu a capo della campagna elettorale di Obama nel 2012. Quella che portò alla rielezione del presidente americano. Un curriculum lungo, il suo. Con consulenze ad alcuni degli attuali leader mondiali. Dall’attuale inquilino della Casa Bianca, appunto, al premier britannico David Cameron.
La posta in gioco per il progetto politico di Renzi
D’altro canto la posta in gioco per Renzi è enorme. Pur lasciando a lui le velleità plebiscitarie, è certamente vero che l’affossamento delle deformazioni costituzionali segnerebbe una brusca battuta d’arresto di un progetto politico-istituzionale che non nasce con Renzi, ma che certamente il leader di Rignano ha incarnato con tutto se stesso. In primo luogo va tenuto presente che l’Italicum, ovvero la modificazione della legge elettorale, entrerà in vigore pienamente non prima del primo luglio di quest’anno e si applicherà solo alla Camera dei Deputati, proprio perché per quella data si prevede che il Senato venga modificato in un organo non elettivo, oltre che essere depotenziato. Se quindi l’effetto del referendum fosse quello di richiamare in vita il Senato come è nella sua versione attuale – e non potrebbe essere diversamente, visto che il referendum può solo dire NO alla legge e non modificare in modo diverso o opposto la normativa costituzionale precedente – l’Italicum in quanto tale non sarebbe applicabile. E’ vero che, vista la disinvoltura istituzionale e costituzionale dell’attuale governo e della maggioranza che lo compone e lo sorregge, non sarebbe impossibile sanare il vuoto con qualche modifica alla nuova normativa elettorale. Ma questo ne violerebbe la conclamata intangibilità, con il rischio di aprire la porta ad altre modifiche a Renzi non gradite.
Ma soprattutto la eventuale sconfitta nel referendum, con la vittoria del NO, oltre a tutti gli effetti collaterali o indiretti che provocherebbe sul terreno politico, spezzerebbe quella tenaglia costituita dal binomio nuova legge elettorale-deformazione della Costituzione su cui si poggia l’ambizioso disegno renziano. Segnerebbe una battuta d’arresto nella costruzione di un regime oligarchico, sostanzialmente a-democratico, basato sul principio delle nomine e della cooptazione nel sistema di potere e sulla mortificazione del principio della rappresentanza politica e conseguentemente della democrazia nelle sue forme basilari e sostanziali. Tale disegno è l’implementazione in salsa italica di un progetto certamente non nuovo che ha contrassegnato la vita politica e istituzionale dei paesi a capitalismo sviluppato perlomeno a partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. E’ la ormai lunga storia della separazione fra capitalismo e democrazia, o, per usare altri termini di origine luhmanniana, della riduzione neoautoritaria della complessità della domanda sociale. Una storia che ha subito una evidente accelerazione nel corso di questa grande crisi, cui le classi dirigenti hanno risposto non solo con politiche economiche deflattive ma anche con una violenta e sistematica torsione istituzionale.
J.P. Morgan entra a gamba tesa sulle Costituzioni democratiche
Una delle più recenti esternazioni in questo senso può essere trovata in un documento elaborato dalla J.P. Morgan e reso noto nel giugno del 2013, pochi mesi dopo le ultime elezioni politiche italiane e non molto prima che il disegno di legge Renzi-Boschi cominciasse il suo cammino (quest’ultimo venne presentato l’8 aprile 2014 e la sua prima approvazione avvenne al Senato l’8 agosto dello stesso anno). Quel documento in 16 pagine è abbastanza noto. E’ tuttavia opportuno riportarne per intero il passaggio chiave, ove si esplicita l’attacco alle Costituzioni e al costituzionalismo democratici da parte di una delle maggiori e più autorevoli espressioni del capitalismo finanziario: “I sistemi politici della periferia meridionale (dell’Europa) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.
Il Parlamento che ha votato le nuove norme costituzionali è illegittimo
Ai sostenitori del NO conviene dunque stare al merito e alla sostanza della questione, guardandosi da ogni semplificazione politicista della contesa che porterebbe solo acqua al mulino altrui. Il merito della controriforma o della “deforma” costituzionale – come ormai viene chiamata con un neologismo che farà strada – non è affatto solido né nelle sue premesse, né nei suoi contenuti e neppure nella sua forma. Né tantomeno così complesso da non potere essere destrutturato e spiegato a chiunque. C’è una convinzione che va rimossa, anche perché del tutto paradossale. Per quanto si riconosca che non possa più esistere, se mai c’è stato in questa forma, un rapporto docente – discente fra intellettuali e popolo, fra avanguardia e masse per usare volutamente un linguaggio oramai divenuto persino arcaico, permane ugualmente il convincimento che certe questioni non possano essere portate a livello popolare perché non verrebbero comprese. Da qui la tentazione a una semplificazione che in realtà diventa una menomazione, se non addirittura una deformazione, dei problemi, ove l’approccio demagogico la fa da padrone.
Innanzitutto non va abbandonato un terreno di denuncia su cui si è stati fin qui troppo teneri. Siamo di fronte ad un parlamento illegittimo, definito nella sostanza tale da quando la Corte Costituzionale ha cassato per vizio di incostituzionalità la legge – il famigerato Porcellum – con cui sono stati eletti i parlamentari. Si potrà discutere all’infinito se quella sentenza avesse in sé e per sé i presupposti per esigere lo scioglimento delle camere e l’indizione di nuove elezioni sulla base della legge elettorale preesistente. Come è noto esistono pareri diversi tra i giuristi e i costituzionalisti su questo problema, al di là del giudizio politico che si voglia dare sulla scelta operata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano cui sarebbe spettata la decisione di sciogliere le camere e indire nuove elezioni.
Non possiamo qui entrare nel merito di quella discussione. Né, a ben vedere, ci è indispensabile per contestare alla radice quanto è stato fatto da questo Parlamento. In effetti, con la sentenza 1/2014, la Consulta rilevava “nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.” Il testo della sentenza richiamava quindi l’ultrattività delle Camere, le quali, anche in caso di già avvenuto scioglimento, possono vedere prorogati i loro poteri fintanto che non siano riunite le nuove Camere (art. 61 Cost.) o possono essere riconvocate per la conversione in legge di decreti legge in scadenza assunti dal governo (art. 77, secondo comma, Cost.). Ma proprio l’esplicitazione di queste esemplificazioni induce a ritenere che l’attuale Parlamento, pur sopravvivendo alle conseguenze della sentenza della Corte, avrebbe dovuto al massimo attenersi a leggi ordinarie o dovute, spingendosi forse anche a quelle di bilancio – già di per sé delicatissime, in particolare modo dopo la stretta determinata dalla nuova governance europea – ma non certo arrogarsi il ruolo di novellatore della Costituzione. Gli mancava e gli manca qualsiasi autorevolezza istituzionale, politica e direi anche culturale per svolgere tale compito. E naturalmente lo si vede dal prodotto che è scaturito dal disegno di legge governativo – la sua origine non parlamentare non è un dettaglio trascurabile – e dalle modifiche parlamentari intervenute e con il governo stesso concordate.
Il più grande tentativo di manomissione della Costituzione italiana
Anche dal punto di vista quantitativo la legge Renzi-Boschi, che consta di 41 articoli, rappresenta il più corposo e ambizioso progetto di revisione costituzionale mai avvenuto. L’intera seconda parte della Costituzione, riguardante l’ordinamento della Repubblica, ne risulta sconvolta. Dall’articolo 55 fino al 135 tutti gli articoli del testo vigente vengono modificati, in tutto o in parte, lasciandone intatti solo pochissimi. Questo non significa affatto che non risulti intaccata anche la prima parte della Costituzione, riguardante come è noto i diritti e i doveri dei cittadini, non tanto per qualche intervento formale ove il termine ‘Camere’ viene condotto al singolare, quanto per la ben più importante ragione -già più volte messa in luce ma che conviene qui ribadire – che quei diritti e quei doveri vengono garantiti e implementati attraverso il funzionamento degli organi dello Stato e che quindi la modificazione e stravolgimento di questi ultimi non può non avere conseguenze dirette in senso restrittivo o distorsivo sui primi.
Come dice lo stesso titolo della legge costituzionale, il cuore della “deforma” è costituito dalla fine del bicameralismo perfetto o paritario che dir si voglia, dalla riduzione del numero dei parlamentari, dalla semplificazione che ne deriverebbe dell’iter legislativo, con l’effetto sbandierato di un risparmio consistente per le casse dello Stato. Si aggiunge la più che annunciata cancellazione del Cnel e un ennesimo intervento sul titolo V concernente regioni, provincie e comuni, su cui vi era già stata una modica solo quindici anni fa.
Ma non siamo affatto di fronte alla fine del bicameralismo perfetto, quanto alla macchinosa costruzione di una sorta di bicameralismo confuso, nel quale il Senato sopravvive, seppure a scartamento ridotto e soprattutto come organo non elettivo. Chi, come il sottoscritto, ha sempre sostenuto, fin dai tempi della ormai lontana Commissione Aldo Bozzi degli anni Ottanta, la tesi del monocameralismo, congiunto però – particolare decisivo – ad una legge elettorale di tipo proporzionale, con al massimo una modesta soglia di sbarramento, non può che constatare che quello spirito riformatore è qui completamente tradito e rovesciato.
Il nuovo Senato
Il Senato non è più un organo eletto direttamente dai cittadini in quanto tale, ma i suoi 100 membri sono composti da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori nominati dal capo dello Stato restanti in carica per sette anni. Il fatto che i senatori possano essere individuati tramite un listino o scelti tra i più votati nelle elezioni regionali – quindi non in quelle politiche -, non cambia la sostanza della questione. Come è ovvio questa scelta comporta un impoverimento di fatto nella qualità del funzionamento sia del Senato che degli organi territoriali. Come si pensa infatti che chi ha già una carica di tutto rilievo, come quella di senatore o di consigliere regionale, possa esplicarne in modo soddisfacente addirittura due, resta un mistero dei più fitti. Il che dimostra lo spirito sostanzialmente centralista che anima l’intera “deforma”. Confermato del resto dalla ulteriore modifica del Titolo V della Costituzione, ove si prevede il rovesciamento del sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle regioni. Sarà infatti il primo a delimitare la sua competenza esclusiva sulle varie materie. Anche chi, un po’ ingenuamente, pensava ad un Senato delle Regioni – funzione che avrebbe potuto svolgere perfettamente la Conferenza Stato-Regioni opportunamente rafforzata nei poteri e nelle funzioni – non può trovare alcuna risposta positiva in questo nuovo quadro.
Il Senato non avrà più il potere di dare o togliere la fiducia al governo, essendo questa funzione di pertinenza esclusiva della Camera dei Deputati. Tuttavia non è vero che esso perde completamente i suoi poteri in materia legislativa. Attraverso un meccanismo farraginoso il Senato avrà ancora la possibilità, anche se non l’obbligo, di esprimersi su richiesta di un terzo dei suoi componenti sulle leggi che esulano dalle proprie competenze in senso stretto. Anche quelle di natura costituzionale. Il Senato, ad esempio potrà votare anche sulla legge di Bilancio, pur restando l’ultima parola alla Camera. Per ciò che concerne le leggi che riguardano le Regioni e gli Enti locali il Senato avrà poteri maggiori. In questo caso per respingere le sue modifiche la Camera dovrà esprimersi con la maggioranza assoluta dei suoi componenti. Pertanto non è vero che non via alcun rimbalzo di leggi fra Camera e Senato – il famoso ping pong -. Il Senato svolgerà un ruolo nei rapporti con l’Europa e in materia comunitaria; sarà chiamato a controllare le politiche pubbliche e il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Inoltre potrà eleggere due giudici della Corte Costituzionale.
L’inganno della semplificazione dell’iter legislativo
La semplificazione dell’iter legislativo appare quindi uno specchietto delle allodole cui non corrisponde la realtà. Persino la forma della scrittura delle nuove norme costituzionali ne rivelano la maggiore complessificazione fino alla sostanziale non leggibilità. Si rafforza la tendenza di sconfinare nel campo che sarebbe proprio dei semplici regolamenti parlamentari, costituzionalizzando alcune norme che potrebbero perfettamente restare di competenza di questi ultimi. Basta confrontare il vecchio testo dell’articolo 70 della Costituzione sulla funzione legislativa delle Camere con il nuovo testo, la cui lunghezza ci costringe a confinare in un’apposita appendice al presente articolo.
L’iter che viene effettivamente semplificato e rafforzato è quello dei provvedimenti di emanazione governativa, confermando, se ce ne fosse bisogno, la già robusta tendenza di prevaricazione dell’organo esecutivo su quello legislativo. Ad esempio il Governo nel nuovo testo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare una corsia preferenziale per quei provvedimenti legislativi individuati come essenziali per l’attuazione del programma di governo – quindi quasi tutti – portando a compimento l’esame e l’approvazione nel giro di settanta giorni. Contemporaneamente – e non senza logica in un simile quadro – il numero delle firme dei cittadini necessarie per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare viene elevata da cinquantamila a centocinquantamila, mentre nel caso del referendum l’abbassamento del quorum, alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni politiche, viene concesso solo se la sua richiesta è supportata da ottocentomila firme, in luogo delle solite cinquecentomila per le quali il quorum resta come era. Insomma l’apertura alla partecipazione diretta dei cittadini all’esercizio legislativo viene ancora più ostacolata.
Il referendum abrogativo dell’Italicum
Come abbiamo già detto il disegno neoautoritario non si fonda su una gamba sola, cioè quella della “deforma” costituzionale, ma anche, e ancora più, sul cambiamento della legge elettorale, già approvato e che entrerà pienamente in vigore nel luglio di quest’anno. Di conseguenza anche se il referendum oppositivo vincesse e anche se questo ponesse seri problemi alla continuazione del disegno autoritario di per sé non sarebbe sufficiente a spezzarlo. Perché comunque rimarrebbe in piedi la possibilità con una minoranza di suffragi, anche poco consistente, di conquistare la maggioranza dei seggi e di governare del tutto a-democraticamente. Si pensi – e di questi tempi non si tratta di un esempio del tutto astratto o ipotetico – alla dichiarazione dello stato di guerra da parte delle Camere (Art. 78 Cost.). Nella nuova legge tale fatale responsabilità viene attribuita alla sola Camera dei deputati, seppure con l’esplicitazione della richiesta della maggioranza assoluta. Ma nel nuovo quadro la Camera sarebbe prevalentemente composta da nominati. Quindi il potere reale di dichiarare guerra si trasferirebbe di fatto al Governo, dipenderebbe dalla volontà del partito che pur essendo minoranza in virtù del generosissimo premio ottiene la maggioranza dei seggi e viene investito della responsabilità di governare.
Per queste ragioni è decisivo che nella prossima primavera si raggiungano le firme necessarie sui quesiti già depositati da un Comitato che ha eletto presidente onorario Stefano Rodotà, che intendono abrogare le parti vitali dell’Italicum. Con la già richiamata sentenza 1/2014 la Corte aveva giudicato incostituzionali alcuni aspetti del famigerato Porcellum in quanto lesivi dei diritti dei cittadini. In particolare la Corte aveva cancellato l’istituto delle liste bloccate, reintroducendo il diritto di scelta dei candidati da parte degli elettori e aveva abolito il cosiddetto premio di maggioranza concesso alla minoranza politica più forte senza soglia alcuna. L’Italicum, anziché conformarsi a queste prescrizioni, conferma peggiorandoli gli stessi vizi di incostituzionalità del Porcellum. Nello specifico l’attuale legge riproduce sostanzialmente l’istituto e l’effetto delle liste bloccate in quanto, pur essendo bloccati “solo” i capilista, la divisione delle circoscrizioni elettorali in cento collegi plurinominali, comporta che la maggioranza dei deputati sarà composta da chi verrà indicato come capolista. Ma soprattutto l’Italicum provoca una alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, poiché la soglia del 40% per l’accesso al premio di maggioranza viene aggirata attraverso il ballottaggio che consente alla minoranza vincente, qualunque sia la sua reale dimensione, di moltiplicare i seggi in Parlamento rispetto ai voti effettivamente conseguiti. Questa clamorosa distorsione viene ulteriormente aggravata, rispetto allo stesso Porcellum, dal fatto che il premio viene dato alla lista e non più alla coalizione. Argomento sul quale Renzi ha voluto tenere duro e pour cause, data la funzione di partito pigliatutto, tendenzialmente unico, che egli ha attribuito al Partito democratico. Conseguentemente i quesiti depositati sui quali si chiederà il voto dei cittadini, necessariamente nel 2017, vertono sulla abrogazione dei capilista bloccati e delle pluricandidature, nonché del premio di maggioranza e del ballottaggio.
La vittoria del SI in questo referendum porterebbe alla cancellazione dell’Italicum senza però ritornare al vecchio Porcellum, bensì alle prescrizioni implicite nella sentenza della Corte Costituzionale che muovono nella direzione di un ritorno a un sistema elettorale di tipo sostanzialmente proporzionale. In sostanza riaprirebbe il sistema politico italiano. E, in questo senso, potrebbe favorire, se ne esistessero le condizioni soggettive, anche la costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra.
I referendum sui temi sociali
Sarebbe però un peccato di inguaribile illuminismo pensare che la normativa elettorale sia in cima ai pensieri di una popolazione alle prese con le gravi conseguenze di una lunga crisi economica aggravata dalle politiche neoliberiste di austerità. Questo tema, come quello costituzionale, ha bisogno perciò di una leva, affinché acquisisca quelle dimensioni di massa in grado rendere possibile nella prossima primavera (i mesi sono necessariamente quelli di aprile, maggio e giugno) la raccolta di almeno 500mila firme per potere votare nel 2017, passati i filtri della Cassazione e della Consulta, in base alle leggi referendarie vigenti. Questa leva non può essere data che dalla possibilità di unire altri referendum di carattere sociale in un’unica campagna referendaria, capace di tenere insieme argomenti riguardanti la democrazia e le libertà, come il lavoro, la scuola e l’ambiente. I tre temi di carattere civile e sociale su cui maggiormente si sono esercitate le politiche neoliberiste del governo.
La responsabilità di individuare i quesiti necessari su questi ultimi tre argomenti spetta naturalmente ai soggetti sociali attivi in questi campi. Non conosciamo ad horas i quesiti scelti dai movimenti sulla scuola e da quelli ambientalisti e di difesa del territorio. Ma è palpabile una ripresa di elaborazione e mobilitazione sui referendum sia da parte di chi ha animato il movimento più importante che si è sviluppato lo scorso anno, quello contro le nuove leggi renziane sulla scuola; sia da parte del movimento per l’acqua – che non ha mai cessato di battersi contro i tentativi di aggirare in vario modo gli esiti del referendum vincente per l’acqua pubblica – e di altri movimenti che si muovono contro il famoso decreto “sbloccaItalia” del governo Renzi e che non si possono certamente accontentare del solo referendum No-triv, che si terrà nell’anno in corso e che va pienamente sostenuto, la cui limitatezza e parzialità sono però evidenti, anche perché è sopravvissuto uno solo dei sei quesiti inizialmente avanzati dai consigli regionali.
La novità più rilevante è rappresentata però dall’impegno diretto assunto dalla Cgil. Non senza resistenze e contrasti al proprio interno, la decisione del più grande sindacato italiano è stata quella di procedere ad una consultazione tra i propri iscritti che si concluderà a metà marzo sulla opportunità di presentare come proposta di legge di iniziativa popolare una complessa (si tratta di ben 97 articoli) “Carta dei diritti universali del lavoro”, che vorrebbe innovare integralmente lo Statuto dei diritti dei lavoratori, adeguandolo alle nuove realtà lavorative. Gli obiettivi dichiarati del testo sono quelli di ricostruire il diritto ad avere diritti nel lavoro realmente universali ed estesi a tutti che pertanto si fondino su principi di rango costituzionale; disciplinare regole su Democrazia e Rappresentanza, estendendo a tutti gli accordi interconfederali sottoscritti in questi anni; attuare l’articolo 39 della Costituzione, dando alla Contrattazione collettiva regole che ne determinino l’efficacia generale ripristinando il giusto rapporto tra legislazione e contrattazione; aumentare le forme di partecipazione, consultazione e voto certificato dei lavoratori al fine di garantire sempre di più che le tutele seguano i cambiamenti organizzativi delle imprese affidando alla contrattazione a tutti i livelli la funzione regolatrice tra diritti dei lavoratori ed esigenze tecnico organizzative delle imprese; riscrivere la disciplina delle tipologie contrattuali rimettendo al centro il contratto di lavoro a tempo indeterminato e stabile, superando la precarietà attraverso la ridefinizione dei diritti collegati a quelle tipologie di lavoro riconducendole alla loro funzione di rispondere ad esigenze meramente temporanee dell’impresa o di autonoma scelta del lavoratore.
Contemporaneamente la Cgil chiede di pronunciarsi sulla eventualità di promuovere quesiti referendari su aspetti che concernono in particolare le norme attuative del Job Act. Per come è presentata l’intera questione la Cgil intende quindi considerare il terreno della proposta di legge di iniziativa popolare come quello principale. Non c’è dubbio che solo in quel modo, e non attraverso referendum che possono essere solamente abrogativi, si può esprimere quella esigenza di rimettere mano alla ricostruzione di una normativa di tutela universale del lavoro. Ma allo stesso tempo appare illusorio sperare che una simile complessa legge possa passare in un Parlamento quale quello attuale. Del resto le proposte di legge di iniziativa popolare sono sempre rimaste lettera morta anche in periodi migliori.
Questo potrebbe e dovrebbe spingere la Cgil stessa ad impegnarsi in tutte le forme possibili per il successo sia del referendum oppositivo contro la “deforma” costituzionale che di quello abrogativo dell’Italicum. Ma soprattutto dovrebbe indurla a considerare i referendum sul lavoro non come un semplice accompagnamento della proposta di legge sul nuovo Statuto (nel merito della quale non è qui possibile entrare), ma il terreno fondamentale su cui ricostruire la credibilità e la rappresentanza stessa del sindacato. Per questo è decisivo che i quesiti che verranno scelti sappiano affrontare in pieno il problema della lotta alla precarietà.
In conclusione, la stagione referendaria che si sta aprendo – che peraltro si incrocerà con le elezioni amministrative in otto importanti città – appare nel suo complesso come il terreno dello scontro contro le politiche del governo, tanto sul versante della democrazia, quanto delle politiche sociali. Una sconfitta rappresenterebbe un consolidamento decisivo delle politiche neoliberiste in campo economico e di quelle neoautoritarie in campo istituzionale. Allontanerebbe ancora di più il nostro paese da quelli in cui sono in corso difficilissimi corpo a corpo con le politiche di austerity. Determinerebbe un sistema politico istituzionale ancora più chiuso e impermeabile alle istanze popolari. Una pietra sepolcrale sul “caso italiano”. Porrebbe lo stesso tema della costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra e di una rifondazione del sindacato in termini diversi e ancora più arretrati di quanto già non lo siano, anche per evidenti carenze soggettive, nella situazione attuale.
Appendice:
Articolo 138 Cost.
Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.
Articolo 70 Cost (testo attualmente vigente)
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
Art. 10. (Procedimento legislativo) della legge costituzionale Renzi – Boschi
L’articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati».