A, B, C DELLA DEMOCRAZIA. C COME COSTITUZIONE / Giacomo Matteotti, chi è per me? Chi è per noi?

Da Ravenna notizie.it dell’11 giugno 2024

Ho deciso di attendere i risultati delle elezioni europee in compagnia di Giacomo Matteotti che, sono certa, avrebbe le mie stesse paure e speranze. Ho appena letto che Elena, nipote di Matteotti, seppe chi era il nonno soltanto quando arrivò alle scuole elementari. Le chiesero di parlare del nonno. Quale nonno? Notizia che mi ha lasciato incredula. Ma da interpretare. Cosa che farò, più avanti.

In questo centenario della uccisione di Giacomo Matteotti per mano fascista, il suo nome è fortunatamente comparso in tante occasioni, nella stampa, in libri a lui dedicati, e in una rivista on line HEOS Il Senso della Repubblica, diretta da Sauro Mattarelli, che leggo da anni e che ha dedicato a Matteotti un supplemento speciale, appena uscito. Operazione encomiabile. Anche la Camera dei deputati ha dedicato una seduta a Matteotti. La decisione di lasciare per sempre vuoto, accompagnato da una targa, il seggio da lui occupato fino al tragico 10 giugno 1924, è buona cosa. I simboli, soprattutto quando sono concreti, come in questo caso, hanno grande valore. Come le pietre d’inciampo che punteggiano quasi tutte le strade di Berlino, di fronte alle case di ebrei inceneriti a Auschwitz. Ora Giacomo Matteotti ha la sua pietra d’inciampo, ed è il suo seggio alla Camera. Il Comitato nazionale per la celebrazione a lui dovuta è stato istituito nella primavera del 2022. Prima che l’attuale governo entrasse in funzione.

Il “chi era Matteotti?” non mi riguarda, perché Matteotti era di casa. Avevo pochi anni quando andammo a vivere in Via Matteotti, una strada a lui dedicata nel 1945 dalla Giunta comunale, una giunta approvata dagli Alleati, composta dai componenti del CLN del Comune di Ravenna, sindaco il repubblicano Riccardo Campagnoni. Mio padre Nello, comunista, faceva parte della Giunta e partecipò alla decisione di intitolargli la strada, in posizione centralissima, quasi contigua al Municipio. Doveva essere nel cuore della città. Tale era l’importanza data dal CLN all’antifascista Matteotti. La stessa importanza data a Mario Gordini. Gli fu intitolata, sempre nel 1945, una strada centralissima, da Via Romolo Gessi a Piazza Garibaldi. Fui stupita quando la vidi accorciata, per fare posto a Via Raul Gardini. Inoltre, nella targa, probabilmente risistemata, Mario Gordini è definito patriota. Lo è stato, dal suo punto di vista. Ma la definizione è troppo generica. E’ stato un partigiano antifascista e comunista di grande importanza per la Resistenza ravennate, fucilato all’inizio del 1944. Segnalai la stranezza anche alla stampa, ma non credo che la mia osservazione sia stata vista. In realtà, l’andare e venire delle intitolazioni delle strade segue l’andamento della storia. Via Matteotti era stata Strada delle Calzolerie. In epoca fascista cambiò nome due volte. Nel 1931 Via di Roma. Nel 1935 Via XXVIII Ottobre 1922, la marcia su Roma. Credo che il CLN appena arrivato al governo della città abbia voluto cancellare una data detestata da Matteotti e risignificato la strada con un nome splendido agli occhi degli antifascisti.

Matteotti non di rado era presente nelle conversazioni famigliari, dense di richiami all’antifascismo, alla Resistenza, alla Liberazione. Di Matteotti sentivo parlare con commossa ammirazione. Certo, senza le ricche sfumature della sua vita, che non erano nelle loro conversazioni e, forse, neppure nelle informazioni che avevano. Cosa mi dicevano di lui? Era un socialista, uomo di grande valore e di grande coraggio e per questo Mussolini lo volle morto.

Ma della complessità della sua vita e delle molte vite di Matteotti ho saputo, e solo parzialmente, nel corso del tempo. Soprattutto studiando le vite di Andrea Costa, di Anna Kuliscioff, di Filippo Turati. Indirettamente, quindi. Anna e Filippo non solo lo stimavano. Lo amavano. Lo chiamavano “il monello”. Solo recentemente ho deciso di avvicinarmi direttamente a lui, senza la mediazione di Anna e Filippo. E ho scoperto una miniera d’oro.

La prima gemma, di cui non sapevo nulla. Giacomo era nato in una famiglia ricca, di possidenti, di Fratta Polesine. Apparteneva alla classe degli agrari. Nella prima adolescenza, grande osservatore, grande lettore e precoce studioso, vede l’estrema povertà e lo sfruttamento che colpisce gli ultimi. Gli bastò questo per scegliere da che parte stare, dalla parte degli ultimi, appunto. E’ adolescente quando si iscrive alla gioventù socialista. Senza dimenticare che il giovanissimo Giacomo, nato nel 1885, vide la crisi “di fine secolo”, quando nel 1898 a Milano i cannoni di Bava Beccaris uccisero quasi cento manifestanti che protestavano per il caro pane. I socialisti furono accusati di essere i promotori del moto. Non lo erano, ma Anna Kuliscioff e Filippo Turati furono messi in carcere. Cuore e mente di Giacomo in quel momento entrarono in stretta connessione, e per sempre.

Studia legge ed economia e si laurea per essere dalla parte degli ultimi con le armi che la sua coscienza gli consentiva, la conoscenza, la cultura. Sono le basi di una sua fede per la giustizia, una fede molto razionale, molto lucida, basata su conti, statistiche, numeri. Molti dati e poca retorica, questa la sua cifra e il suo stile, fin dall’inizio, nel lavoro politico di base, nell’impegno amministrativo nei Comuni della sua zona – in molti piccoli comuni fu giovanissimo consigliere e a volte sindaco socialista -, in Parlamento, quando ci arrivò. Una eccezione? Altri figli di agrari hanno fatto la sua scelta? Ne dubito. Altri figli in altri mondi, ci furono. Anna Kuliscioff, ebrea russa, di famiglia molto ricca, arrivò al socialismo, attraversando l’anarchia e, forse, anche il terrorismo. Frutto maturo del populismo russo del secondo Ottocento, quando una generazione di giovani ricchi e non di rado di nobile stirpe decise di “servire il popolo”. Filippo Turati, di ricca famiglia lombarda. Karl Marx, di benestante famiglia tedesca ebrea, sposò una nobile e ricca donna tedesca, Jenny von Westphalen. Friedrich Engels, figlio di un ricco industriale, scelse, con Marx, la classe operaia. Senza dimenticare un’altra eccezione, in questo caso medievale. Francesco, figlio di un ricco mercante, si denudò, in piazza, ad Assisi, di fronte a un padre allibito e furioso. Si fece ultimo degli ultimi. E’ patrono d’Italia. E’ conosciuta bene la sua storia, oltre alla storia dei fioretti? Ne dubito. Ma figli di agrari padani che scelsero gli ultimi? Non so. Se ci sono stati, vorrei tanto conoscerne la storia.

Ben presto gli avversari politici di Matteotti, e ben prima dell’avvento del fascismo, cominciarono ad irriderlo, perché era ricco. Un esempio che stonava troppo, nel paesaggio padano dove, già dalla fine dell’Ottocento, la tensione fra braccianti e “padroni” era forte. Le cooperative dei braccianti di Nullo Baldini erano già una realtà. Matteotti era un esempio da smontare, da svilire. Uno svitato, uno squilibrato. Quando i cannoni di Bava Beccaris uccisero i manifestanti, Matteotti si “squilibrò” in modo definitivo.

Altra gemma. Certo sapevo che Matteotti, come quasi tutti i socialisti, di fronte alla prima guerra mondiale fu neutralista. Ma il suo fu un neutralismo di forza straordinaria, con argomenti che parlano all’oggi. Ogni nazionalismo è assurdo. Questo disse, affermando la necessità degli Stati Uniti d’Europa. Perorò la pace con forza inaudita. Era un pacifista radicale. In HEOS Il Senso della Repubblica un articolo è dedicato al suo pacifismo. Aldo Capitini, teorico della non violenza, ebbe per Matteotti ammirazione sconfinata. Matteotti non era né dalla parte degli italiani né dalla parte degli austriaci. Argomento scombinante anche oggi. Chi, come è il mio caso, considera la guerra, tutte le guerre, uno scandalo, si trova spesso in non numerosa compagnia. Immaginiamo quindi come Matteotti era visto, dal 1914 in avanti. Certo, non tutti i giovani volontari erano nazionalisti e bellicisti. Il giovane Piero Calamandrei andò volontario al fronte convinto di partecipare alla quarta guerra di indipendenza. Non era nazionalista. Era mazziniano. Pensava di dare un contributo definitivo alla indipendenza e unità italiana. Matteotti in quel caso era più vicino a Giolitti che non voleva la guerra, per ragioni pragmatiche, più che ideali. Anche Matteotti era considerato, per il suo socialismo gradualista, un pragmatico. Ma nel caso della pace e del rifiuto della guerra aveva idealità altissime e indiscutibili. Simili a quelle di noi femministe, oggi, del gandhiano Aldo Capitini e dei non violenti, ieri e oggi. Una gemma, anche questa.

Ma non mi ero accorta che fosse di grandissime dimensioni. Il suo pacifismo radicale gli costò tre anni di confino, imposto da un governo non ancora fascista. Nel marzo 2016 durante una seduta del Consiglio provinciale di Rovigo, pronuncia parole considerate gravissime contro la guerra, contro la civiltà italiana e contro il sentimento di patria. Viene condannato per disfattismo. Dopo trenta giorni di carcere, viene trattenuto in una caserma, in Sicilia, lontano dal fronte, per tre anni. Volutamente tenuto lontano dai soldati in trincea. Matteotti è un pericolo, potrebbe convincere i soldati alla sedizione, alla diserzione. Piero Gobetti ragionò sul pacifismo di Matteotti, dopo la sua morte, nel 1924. “Conviene mettere a confronto l’esempio di Matteotti pacifista con la condotta di uomini tipici del pacifismo italiano, pavidi e servili per non essere presi di mira… nascosti silenziosi nei comandi o negli impieghi… Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo sovversivismo, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità”. Un battuta volgare, che spesso abbiamo sentito dopo stupri a donne, potrebbe essere “se l’è cercata”. Le sue uniche armi erano le parole. Non le risparmiava. Ma non era un retore. “Siete assassini, mandate a morire giovani, carne da macello” in una guerra che la quasi totalità della gioventù povera non capiva. Assassini, diceva in pubblico, a guerra in corso. In una guerra che, sempre nel 1916, Benedetto XV definì una inutile strage. Inutile e pericolosa, vide e disse Matteotti. Il popolo tedesco vinto, dirà poi, dopo la fine della guerra, se su di lui vi vendicherete, reagirà e nuove guerre verranno. Diceva cose nette e inequivocabili. Il sì sia sì, il no sia no. Quasi evangelico, lui non credente, a volte ferocemente anticlericale, come non di rado dalle nostra padane parti.

Altra gemma. Matteotti si innamorò di Velia, profondamente religiosa. La amò immensamente. Stava per cedere alla sua richiesta di un matrimonio religioso. Ma il giorno prima delle nozze, preso da mille tormenti, le scrisse. Dobbiamo lasciarci. Venire in Chiesa sarebbe una grande menzogna. La mia coscienza dice di no. Non credo che tu voglia un uomo menzognero. Velia accettò il matrimonio in Campidoglio. Ho trovato questa storia meravigliosa nel libro, appena pubblicato, di Vittorio Zincone MATTEOTTI DIECI VITE (Neri Pozza aprile 2024). Dieci vite. Così disse Velia a Giacomo. Avresti dovuto avere dieci vite. Condivido, dopo avere osservato da vicino la sua vita. Il matrimonio laico. Una storia che mi ha riportato a racconti sentiti da bambina. Numerosi erano gli anarchici, anche dalle nostre parti, soprattutto nelle campagne a sud di Ravenna, e in zone popolari, in città. Gli anarchici rifiutavano il matrimonio. Anche Anna Kuliscioff, dopo l’abbandono dell’anarchismo, non volle comunque mai sposarsi. Dalle nostre parti, donne innamorate di anarchici, o erano loro stesse contro il matrimonio, o ricorrevano a sotterfugi, con la complicità di parroci. Alcune in Chiesa con i pantaloni del loro uomo in mano e la cerimonia aveva corso. In Chiesa, naturalmente, non in Municipio. Giacomo e Velia, invece, in Municipio, insieme.

Un amore pieno di passione, resa veramente ardente dall’essere, i due innamorati, raramente insieme. Matteotti sempre in giro nel suo Polesine, e non solo, per organizzare e sostenere le attività del Partito socialista. Un partito dalle molte anime, anche prima del biennio rosso del primo dopoguerra. Matteotti, pragmatico, era parte della corrente gradualista di Turati. Assai critico con la corrente massimalista. Aveva, per questo, molti avversari anche nel suo Partito. Gradualista? Per forza, è un uomo ricco, dicevano alcuni appassionati del programma massimo che, con la rivoluzione bolscevica vittoriosa, si pensava fosse a portata di mano anche in Italia. Matteotti, Turati, Kuliscioff seguivano i fatti di Russia con interesse unito a preoccupazione. Se si esaminano gli scritti di Matteotti in varie riviste, o i suoi interventi, nei consigli comunali del Polesine, e, dal 1919, alla Camera, l’impressione che si ha è che il suo gradualismo fosse radicale e basato su dati di realtà. Né massimalista né minimalista. Chiedeva ciò che, dati alla mano, era possibile avere, se ci fosse stata volontà politica attiva e coerente. Si avverte una sua conoscenza anche diretta di altre realtà europee. In Inghilterra era andato nella prima gioventù per ragioni di studio. Conosceva bene molte lingue. Era un intellettuale dai molti interessi. Amava anche il teatro e la musica. Amava viaggiare, anche per diletto. Faceva buon uso del suo denaro. Gli piaceva stare bene, in buoni alberghi. Vestiva bene. Anche Anna Kuliscioff mantenne sempre un raffinata eleganza. Matteotti era personaggio inusuale, visto con odio dalla destra e con odio crescente dai fascisti. Con qualche sospetto anche da parti della sinistra. Da qualunque parte lo si esaminasse, era una voce quasi sempre fuori dal coro.

Alle elezioni politiche del 1919 il Partito Socialista ebbe grande successo. Matteotti ebbe un notevole successo personale, nel suo Polesine. La sua partecipazione ai lavori parlamentari è intensa. Le sue stranezze continuano. Chiede leggi per eliminare privilegi elettorali dei proprietari di terre, come lui è. Propone, da bravo socialista autolesionista, enormi aumenti delle tasse di successione. Si rivolge a Benedetto Croce, ministro della pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti. Chiede stipendi maggiori per le maestre e fondi ai Comuni per la costruzione di asili. Educazione e formazione sono al centro del suo impegno socialista. Senza conoscenza, studio e preparazione non c’è rivoluzione che tenga. La sua rivoluzione è appunto affidata ad una continua maturazione dal basso. In un articolo dell’agosto del 1919 scrive, avendo in mente probabilmente la rivoluzione del 1917. “Abbattere la borghesia è il meno. Il più è costruire e preparare il socialismo dentro di noi”. Per essere socialisti non basta dirsi tali. E i socialisti, secondo Matteotti, non debbono ricorre alla violenza nella lotta politica. Su questo è intransigente. Anche per questo non da tutti apprezzato.

E’ sempre più odiato dai fascisti. Nel 1921 sono eletti alla Camera trentacinque fascisti. Matteotti a voce alta dice che i loro manganelli hanno contribuito alla scioglimento di molte amministrazioni socialiste in varie parti d’Italia. Matteotti è convinto che anche il suo mondo non ha compreso il disastro che incombe con la crescita del fascismo. Il Congresso del Partito socialista a Livorno vede l’uscita dal Partito della corrente comunista. Ma anche all’interno del Partito socialista la vita è turbolenta. La corrente gradualista di Turati viene espulsa dal Partito, nel 1922. Il contrario di quanto sostenuto da sempre da Matteotti, l’unità come necessità assoluta. Turati allora dà vita al Partito Socialista Unitario. Quando? Poche settimane prima della marcia su Roma. Segretario Giacomo Matteotti. Ha così inizio la veloce corsa verso la fine.

Se si è contrari alla violenza, come è possibile la conquista legale e graduale del potere? Ma la questione più urgente è un’altra. E’ possibile mettere all’angolo il fascismo con alleanze ampie ed estese? Grande questione. Attuale, direi. Matteotti suggeriva alleanze per fermare il fascismo che, nella sua terra e nella nostra, in Romagna, stava rendendo impossibile la vita. Alleanze per fermare e violenze dilaganti. Anche Matteotti da tempo subisce aggressioni. Ma, soprattutto, non comprende come la violenza fascista, che in modo crescente travolge tutto – consigli comunali, sindacati, sezioni di partiti – non venga affrontata nell’unico modo possibile. In primo luogo con l’unità del mondo socialista e con alleanze fra tutte le forze che non sono fasciste. Per esempio, Matteotti spera in una alleanza parlamentare con i Popolari di don Sturzo. Niente da fare. Da ogni parte i suoi tentativi sono ostacolati, a volte addirittura considerati un tradimento. Incredibile, se si pensa al clima, ai nostri occhi tossico, di quei giorni. La sede de L’Avanti a Milano fu aggredita in più di una occasione, dal 1919 in avanti. Ma un salto estremo ci fu a fine ottobre del 1922, mentre la Marcia su Roma stava per concludersi. Fu incendiata e distrutta, come la Lega delle Cooperative a Ravenna, pochi mesi prima. Gabriele D’Annunzio, dal balcone di Palzzo Marino, manifestò il suo entusiasmo, a commento delle violenze fasciste. “In voi vedo una gioia virile e una maschia allegrezza”. Violenza è cosa da maschi, bella. Il poeta vate parla chiaro.

Matteotti era il contrario di questa virilità bellicosa. Disprezzato e incompreso anche per questo. Le uniche battaglie che cerca, o a cui non si sottrae, sono quelle della politica. Conflitti radicali, attraverso le parole. Anche e soprattutto quando al governo arriva Mussolini. Parla spesso nell’aula parlamentare, scrive e pubblica. Continua a dare valore al Parlamento, sempre più disprezzato dal fascismo di piazza e di manganello, e svalutato anche a sinistra. Intende viaggiare in Europa per informare dei disastri del governo Mussolini, sempre più liberticida. Su ordine di Sua Eccellenza, il passaporto non gli viene dato. Quando si arriva alla legge Acerbo, Matteotti denuncia e accusa chi, in particolare i liberali, sono disposti a sostenerla. “…disposti, per conservare il seggiolino e le apparenze della loro influenza, a preparare, attrverso la legge reazionaria, la “seconda ondata”, che rovescerà la costituzione italiana, facendola tornare all’assolutismo pre-statutario”. Analisi lucida, da Cassandra poi inascoltata. La legge Acerbo consente alla lista che ha il 25% di vincere. Per le elezioni dell’aprile del 1924 molti liberali e cattolici fanno un’unica lista con i fascisti, diventati nel frattempo il Partito Nazionale Fascista. E’ il Listone. Nazionale, nazione, termini assai amati, allora ed oggi, a destra. E a sinistra? Il Psu, il Psi e il PCdI, procedono fra loro in guerra. Matteotti, ostile alle idee comuniste, comunque tenta una alleanza. Né gli altri socialisti né i comunisti approvano.

Gemma nera. Esistono anche di questo colore. Le elezioni dell’aprile del 1924 sono vinte appunto a man bassa dal Listone. E Matteotti continua “a cercarsela”. Il Professor Lucchini fondatore della Rivista penale con la quale il giovane Matteotti aveva in passato collaborato, lo invita a riprendere la collaborazione. Matteotti gli risponde il 10 maggio del 1924 “… il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso…”, che è quello di Segretario del Psu e di deputato appena rieletto. Dovere che esercita il 30 maggio, a Montecitorio, nel suo posto, all’estrema sinistra dell’emiciclo, oggi diventato pietra d’inciampo. Matteotti accusa “Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione di maggioranza”. In alcune circoscrizioni le violenze hanno impedito la presentazione di liste. Matteotti elenca puntigliosamente le città in cui è stato impedito. Anche rappresentanti di lista sono stati minacciati e allontanati. Quindi, chiediamo l’annullamento delle elezioni. A chi si congratula con lui per l’intervento Matteotti, Cassandra, dice “… preparatevi ora a fare la mia commemorazione funebre”. Pochi giorni dopo, il 10 giugno – sto concludendo la mia riflessione proprio oggi, 10 giugno di cento anni dopo – Matteotti viene ucciso. Pertini, subito dopo, si iscrisse al Psu.

Gaetano Salvemini si sentì in colpa. Così scrisse a Velia. “Detestavo i fascisti ma non avevo fiducia negli antifascisti. Me ne stavo tra i miei libri, risoluto a non entrare più nella politica attiva. Ma quando Lui fu ucciso, io mi sentii in parte colpevole della sua morte. Lui aveva fatto il suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini.”

La nipote Elena, figlia di Matteo, secondogenito di Matteotti, non ha mai sentito Matteo parlare del padre. Per non turbare la figlia? Ipotesi di Elena. Ma Giacomo sarebbe stato d’accordo? Matteo fu eletto alla Assemblea Costituente. Seguì Saragat, compagno a suo tempo di Matteotti, quando decise la scissione dal Psi, dopo la seconda guerra mondiale. Una storia infinita, questa delle scissioni nella sinistra.

Giacomo Matteotti fu un riformista rivoluzionario. Qualche decennio fa la mia generazione avrebbe considerato questa definizione un ossimoro. Non solo la mia generazione. In famiglia cosa si diceva di Matteotti? Che era stato un socialista eroico. Che fosse il segretario del Psu, o non si sapeva o non si diceva. Né che fosse ricco. Un agrario? Impossibile. Gli agrari hanno armato i fascisti. Sicuramente era un eroe e un martire. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Vivere nella strada a lui dedicata era un onore. Mi sono occorsi molti anni per togliere Matteotti dalla cornice e posarlo a terra. Uomo geniale, sicuramente. Coraggioso, troppo. Temerario, forse. E, non so quanto consapevolmente, kantiano, obbediente a un imperativo categorico indiscutibile. Qualche giorno fa ho ascoltato Maurizio Maggiani, in occasione della presentazione del suo ultimo libro La memoria e la lotta. Un libro che sarebbe piaciuto a Matteotti. Maggiani ha ricordato con ammirazione il filosofo kantiano Piero Martinetti, che fu fra i dodici professori universitari che rifiutarono il giuramento fascista, ben sapendo che sarebbero stati espulsi dall’Università. Obbedì alla sua coscienza, Martinetti, e si ritirò in campagna a curare le sue piante. Più complicato il mestiere di Matteotti. Tenere assieme coscienza e scelta politica è faticoso come scalare il K2. Scalò il K2, arrivò in cima e lì morì. Sapendo di lasciare tre piccoli e una moglie amatissima. Le sue lettere a Velia Titta, donna notevole, scrittrice, fanno toccare il cielo con un dito. I pochi momenti vissuti insieme credo abbiano avuto lo splendore dell’oro e il profumo dei lillà, fiori da loro amati. Velia visse solo dodici anni più di lui. Quello splendore e quel profumo – sono certa – l’ha aiutata a sopravvivere. Qualche decennio fa Terracini disse che Turati e Matteotti avevano ragione. Gramsci entrò in carcere nel 1926 e ne uscì moto nel 1937. E’ mia convinzione – ovviamente senza prove – che se la loro vita fosse stata più lunga si sarebbe incontrati, dati la mano e messi al lavoro insieme. I Quaderni scritti in carcere da Antonio Gramsci me lo fanno pensare.

Ho appena visto i risultati delle elezioni europee. Sento Giacomo Matteotti che mi dice. Allora, quando vi decidete a unire le forze e a dare vita a un grande movimento che sia insieme pragmatico, riformista e rivoluzionario? Già. Quando?

Da sempre ho avuto ammirazione per Giacomo. Ora mi è profondamente amico.