Sembra una riforma minimale, solo cinque articoli su 189. In realtà, il disegno di legge costituzionale targato Meloni scardinerebbe le basi della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Questa l’analisi di Ugo De Siervo, presidente emerito della Corte costituzionale, ricordando come anche l’autonomia differenziata sia contro la Carta del ‘48.
Un capo assoluto in un’Italia spezzata, è questo ciò che lei paventa se la riforma costituzionale del governo venisse approvata?
Sì, il problema esiste. Il disegno di legge Meloni indica una scelta molto dura: da un lato, massima concentrazione dei poteri al vertice politico; dall’altro, anche se non lo si dice ma nei fatti è così, una drastica diminuzione dei poteri della popolazione nel momento elettorale. Al tempo stesso sta andando avanti confusamente la proposta di differenziare fortemente Regioni ordinarie e speciali, lasciando tantissima discrezionalità di scelta al governo e alla maggioranza politica. Rompendo così il principio fondamentale che le Regioni possono avere poteri diversi, ma lo si decide con modifiche della Costituzione o degli statuti speciali.
La Carta del 1948 funziona in un gioco di pesi e contrappesi: continuerebbe a funzionare così anche se moltissimi poteri venissero concentrati nelle mani del premier?
Nel caso di specie non c’è questo bilanciamento. Innanzitutto perché si prevede un unico momento elettorale nel quale vengono eletti sia i parlamentari sia il presidente del Consiglio. Questa è un’operazione che elimina una delle forme classiche di bilanciamento del potere attorno all’esecutivo. S’impedisce, cioè, che ci possa essere un momento elettorale intermedio nel quinquennio mediante il quale il corpo elettorale controlla l’adesione o meno alle politiche che il presidente del Consiglio voglia portare avanti.
Occorre anche riflettere sull’elezione diretta del presidente del Consiglio…
Un’elezione diretta, così come sommariamente proposta dal disegno di legge, non esiste al mondo. Se nelle democrazie novecentesche e del secolo attuale non esiste uno Stato democratico nel quale si proceda in questo modo, concentrando così grandemente il potere, ciò indica che si è ritenuto che sia pericoloso per la democrazia stessa. Ecco, invece, improvvisamente in Italia si scopre la bellezza di un modello organizzativo assolutamente nuovo.
Uno degli elementi di equilibrio dell’attuale Costituzione è il ruolo, la funzione del presidente della Repubblica, lo abbiamo visto all’opera in questi giorni esercitare questo ruolo nelle sua dichiarazioni dopo gli avvenimenti di Pisa. Meloni afferma che la presidenza della Repubblica non verrà toccata. Questo ruolo di equilibrio rimarrà nella futura Costituzione?
Assolutamente no. Tra l’altro quest’affermazione, reiterata da parte di esponenti del governo e della maggioranza, è un sintomo di scorrettezza. Il disegno di legge costituzionale modifica radicalmente alcuni dei poteri massimi del presidente della Repubblica. E non mi riferisco alla nomina dei senatori a vita, ovviamente, ma ai poteri delicatissimi che ha il presidente nella formazione dei governi e nello scioglimento anticipato delle Camere. Nel progetto Meloni, in più passaggi, si restringe al minimo il potere del capo dello Stato nello scegliere o contribuire a scegliere il presidente del Consiglio e i ministri, e di decidere o meno di procedere – questa è cosa gravissima – allo scioglimento delle camere. Occorre dire con franchezza che sono dichiarazioni false. I poteri presidenziali verrebbero ridotti in modo drastico, il presidente della Repubblica verrebbe ristretto in un ruolo di pura rappresentanza, non più quello definito dalla Costituzione repubblicana, di riequilibrio e di bilanciamento.
Perché parlare di “Italia spezzata”, se per l’esigibilità dei diritti rimarrebbero comunque in vigore gli articoli che li definiscono, da quello sulla salute a quello sull’istruzione, a quello sulla mobilità?
Il nostro è un sistema che prevede l’attribuzione di determinate materie, e secondo determinate normative, alle Regioni. Fin dall’inizio, però, si è posto un problema di uguaglianza di trattamento nelle diverse Regioni del territorio, per questo è stato introdotta un’eccezione rilevante, per ragioni storiche notorie, distinguendo cinque Regioni (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Val d’Aosta) dalle altre 15 che hanno invece un ordinamento eguale. La Costituzione riconosce Regioni che hanno più poteri o poteri diversi da quelli delle altre Regioni, ma tutto questo viene mediato da scelte operate dalla Costituzione stessa o da apposite leggi costituzionali. Adesso a questa diversità si vuole aggiungere una poco chiara – mi permetto di dire – possibile modifica dei poteri delle Regioni ordinarie, ma in realtà anche delle Regioni speciali, operato non da norme costituzionali, ma in presunta attuazione di un principio costituzionale che lo permetterebbe.
E quale sarebbe questo principio costituzionale?
Questo principio costituzionale che lo permetterebbe non esiste, o esiste in una forma estremamente più debole, previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, che permette una marginale modifica dei poteri amministrativi e finanziari delle Regioni, a certe condizioni e con certe procedure. Ma tutto finisce lì. Adesso, invece, si cerca di gonfiare enormemente questo principio: in pratica, si vuole sovrapporre alla distinzione tra Regioni speciali e Regioni ordinarie un’altra possibilità di differenziazione senza un disegno sufficientemente e adeguatamente condiviso. Il problema è questo. Tra l’altro, data la progettazione che è stata fatta, tutto ciò porterebbe a una diversità di trattamento a favore delle aree territoriali più forti economicamente, più robuste rispetto alle altre. Ma questo urta con due principi fondamentali della nostra Costituzione, l’eguaglianza e la solidarietà. L’Italia è un Paese con enormi divari territoriali, aree fortemente sviluppate e altre arretrate: non si può intervenire con una semplice legge ordinaria che favorisca ulteriormente le zone forti e quindi, implicitamente, che sfavorisca radicalmente le aree già depresse.
La Costituzione, nata dalla Resistenza, non è solo una definizione degli assetti istituzionali della Repubblica ma si dipana su una serie di valori, come l’uguaglianza, la solidarietà, la libertà, la pace, e su una serie di diritti, da quello del lavoro alla progressività fiscale. Il disegno di legge formalmente non li tocca, è davvero così?
Non tocca gli articoli che definiscono valori e diritti in modo esplicito, ma implicitamente sì, pone le premesse perché il Paese funzioni in modo ancora più diseguale. Già ci sono forze economiche, sociali, culturali che portano a trattamenti fortemente diversi da area a area, e così si rafforzerebbe questa tendenza. Non bisogna dimenticare che come Stato unitario l’Italia nasce assai recentemente, tardi rispetto alle altre nazioni europee, portando dentro di sé una tendenza separatista. Il principio di eguaglianza da una parte, e il principio di solidarietà dall’altra, dovrebbero essere i correttivi che servono a sviluppare in modo relativamente il più possibile omogeneo lo sviluppo e la vita sociale.
Potremmo allora definire queste riforme come “eversive”?
Quelle di cui parliamo sono riforme eversive nel senso pieno del termine, cioè cercano di togliere elementi di unità, è per questo che sono molto pericolose. Mi permetto di notare che nel corso degli anni le ipotesi di riforme costituzionali sono state diverse, ma questa è la riforma costituzionale che sta sollevando più obiezioni di tutte, malgrado apparentemente sia una legge costituzionale breve, appena cinque articoli, ma in realtà con essa si cerca di alterare ben più di cinque articoli della Costituzione, si cerca di alterare alcuni principi alla base della democrazia repubblicana.
Lo scenario che lei descrive è fortemente preoccupante per chi invece ha la mente e il cuore nella Repubblica del 1948. Cosa occorre mettere in campo per evitare che quel disegno non si realizzi?
Una grande attenzione, davvero una grande attenzione. Sono d’accordo con alcuni studiosi che in passato avevano sostenuto altre riforme costituzionali, che questo testo sia inemendabile, non solo per la sua inadeguatezza tecnica, ma anche per il suo contrasto con i princìpi che reggono le basi della nostra democrazia rappresentativa. La tecnica di elezione del premier sarebbe unica al mondo, e già questo, come dicevo, è significativo. Ma soprattutto è un disegno di legge che apparentemente sembra toccare solo pochi punti, quando in realtà rischia di scardinare alcune basi fondamentali e fondanti della nostra Costituzione. Sì, sono preoccupato.