A,B,C DELLA DEMOCRAZIA. C COME COSTITUZIONE/ Scioperare e ancora un diritto. O no?
Di Maria Paola Patuelli per Ravennanews.it
L’interrogativo del titolo mi ha spinto a rispolverare vecchie carte che non guardavo da tempo, e ho fatto un viaggio a ritroso, per meglio decifrare l’oggi. Questo ho pensato, in questi giorni, alla luce di un certo ravvivarsi, nello spazio pubblico, di un’attenzione allo sciopero e alle sue forme, una attenzione da tempo distratta da sventure e tragedie, dal covid alle tragiche guerre dove i conflitti fanno scorrere sangue. Meglio che scorrano, invece, conflitti di altra natura, conflitti che partono dalla vita, dalla società, dal pluralismo di idee, politiche ed etiche, e dal confrontarsi, e confliggere, di diversi interessi. Inevitabilmente diversi e non per le buone ragioni delle differenze che la nostra Costituzione garantisce, ma per le disuguaglianze, da tempo crescenti, nel mondo, in Italia e anche in altri luoghi, in Europa.
Differenze e disuguaglianze, trattate in modo ben diverso dalla nostra Costituzione. Le differenze, la Costituzione le tratta bene, come nell’esemplare Articolo 3, perché le accoglie e le garantisce tutte. Le disuguaglianze invece sono al centro del grande programma che la Costituzione ci consegnò. Ridurre progressivamente le disuguaglianze, dare vita a una società di giustizia, dove ogni persona abbia lo stesso valore, in termini di dignità e di diritti.
Se partiamo da questa premessa, il ritornare della attenzione pubblica allo sciopero mi induce a riflettere sul suo divenire storico. Perché anche lo sciopero ha una sua storia, che ci fa comprendere molto bene perché lo sciopero compaia come diritto solo nella Costituzione del 1948, nell’Articolo 40. Un perché non scontato, da riscoprire. La storia costituzionale e giuridica italiana presenta cambiamenti, ed è cambiato nel corso del tempo il non esserci, o l’esserci, della possibilità di scioperare.
Lo sciopero è un fenomeno sociale tutto sommato recente. Compare con l’industrializzazione. E prima, tutto bene? Zero conflitti? In realtà, da Spartaco in avanti i conflitti c’erano, e avevano risultati tragici. Alcuni esempi, di proteste e richieste finite male. Le jaqueries erano esplosioni di rabbia e disperazione degli ultimi della terra – parlo di casi europei – che speravano, illusoriamente, di pareggiare conti, aggredendo e distruggendo signori e castelli. La guerra dei contadini in Germania tenne sotto scacco i signori per un tempo lungo quasi quanto la rivolta di Spartaco, circa due anni. Lutero disse che le richieste dei contadini erano giuste. I signori non lo ascoltarono. I contadini passarono all’offensiva. Distrussero, uccisero e furono poi massacrati. I sanculottes, all’inizio della Rivoluzione, ebbero qualche speranza, di breve durata. Ma la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo, anche se, in quel momento, solo di sesso maschile, lasciò il segno.
Se vogliamo osservare la storia del nostro paese, nel primo Statuto di parvenza costituzionale – certo, fu un passo avanti -, lo Statuto Albertino, lo sciopero non esiste. Ribellioni di lavoratori erano represse penalmente. Il codice penale sardo, che fu diffuso poi su tutto il territorio nazionale dopo l’Unità, puniva la sospensione dal lavoro. Era un delitto e tale fu fino al codice penale di Zanardelli del 1890. Zanardelli depenalizzò lo sciopero. Il movimento dei lavoratori si stava costruendo, in quegli anni. Le cooperative stavano nascendo, cresceva il numero dei socialisti e calava quello degli anarchici. Ma lo sciopero era comunque fortemente svalutato e punito dai padroni – così erano chiamati i proprietari senza tanti giri di parole – con la possibilità della espulsione dal lavoro, per avere disobbedito agli obblighi contrattuali. Questo accadeva non molto tempo fa. Nel 1890 una mia nonna aveva otto anni. Sento aria di famiglia.
Altro robusto movimento della storia si vide con la nascita di un partito di massa, il Partito socialista, che copiò dalla storia della Germania l’idea di un partito che fosse non solo di giustizia e fratellanza – ideali già presenti nei democratici repubblicani -, ma nettamente dalla parte del lavoro sfruttato. E in molti casi le società solidaristiche di mutuo soccorso, di origine repubblicana, divennero sindacati organizzati e radicati. Solidarietà organizzata, forza permanente, unione di chi ha gli stessi bisogni e interessi. Gli ultimi – non più soli, isolati, deboli – si danno forza con le Camere del Lavoro. È questa una storia di lunga durata, a partire dai primi anni del Novecento. È il tramonto delle deboli esplosioni di rabbia, delle ribellioni senza speranza.
Fu allora che gli scioperi, non più reato penale nel Codice Zanardelli, acquistarono forza perché organizzati e sostenuti da forze politiche e sindacali. Non sempre, ma non di rado con qualche risultato positivo, come la straordinaria storia del nostro movimento bracciantile dimostra.
Ma una forte discontinuità si ebbe con la rottura introdotta nello Stato – debolmente liberale – dal fascismo, che inaugurò la sua crescente penetrazione nella società italiana del primo dopoguerra con aggressioni violente alle sedi dei partiti, delle cooperative, e, in particolare, dei sindacati. Nel Codice penale del 1931, si passò dai fatti cruenti alla legge, scritta nero su bianco. Lo sciopero e la serrata sono reati di natura penale. Perché? Perché sono estranei agli ideali fascisti della corporazione, che chiede a tutto il popolo, che è uno, di agire nell’interesse della nazione, che è una. Sindacati sciolti perché attentano alla sicurezza dello Stato. E il popolo uno ha gli stessi identici interessi, a prescindere. I conflitti di classe vengono cancellati per legge.
Ci volle la caduta del fascismo, con la fine dell’ordinamento corporativo, per il ritorno dello sciopero. E fu un ritorno accompagnato da una profonda discussione durante i lavori della Assemblea Costituente. L’Assemblea, nella quasi totalità, era del tutto d’accordo che lo sciopero diventasse un diritto. Per la prima volta nella storia italiana, perché tale non era mai stato, neppure prima del fascismo. La discussione ci fu, e intensa. Inizialmente non c’era completo accordo sul fatto che lo sciopero diventasse un diritto costituzionalmente garantito. Aleggiava il timore che una forte legittimazione fosse un vulnus per la pace sociale. Dovevano bastare leggi adeguate. A chi sosteneva questa posizione, i comunisti Di Vittorio e Togliatti risposero che la Costituzione che si stava disegnando, per una democrazia capitalista, doveva avere inscritto il diritto di sciopero. Per una democrazia socialista, come quella sovietica – così dissero -, lo sciopero sarebbe stato un diritto superfluo. Perché? Perché le classi erano state abolite. Una conferma di quanto i contesti storici siano condizionanti, e non di rado smentiti dalla storia.
Se Di Vittorio e Togliatti tornassero fra di noi, penserebbero che non avevano visto giusto, rispetto alla democrazia sovietica. Sul polo opposto, solo Giannini dell’Uomo qualunque si dichiarò contrario allo sciopero in quanto tale. Fu trovata la sintesi nell’art.40, stringatissimo: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. È un articolo che riprende in modo identico la Costituzione della Repubblica francese approvata nell’autunno del 1946. Ma la vera sostanza politica dell’Articolo 40 si trova nel precedente Articolo 39, dove del tutto esplicito è il rifiuto della corporazione fascista obbediente allo Stato. I primi due commi recitano: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso gli uffici locali o centrali, secondo le norme di legge”.
Ma la storia dello sciopero continua con fasi alterne nella storia della Repubblica. La Costituzione non entrò nei luoghi di lavoro, e in particolare nelle fabbriche, per molto tempo. Operai licenziati perché attivisti sindacali, o perché scioperanti. La storia della Fiat, e non solo, ne è piena. E, di nuovo, furono eventi storici a produrre spostamenti. Non è un caso che lo Statuto dei diritti dei lavoratori diventi legge qualche mese dopo l’autunno caldo del 1969. L’autunno di un anno che viene subito dopo l’anno della grande “azione collettiva”, come spiega Paul Ginsborg parlando del Sessantotto. Il 1969 inaugurò non solo una forte crescita del movimento sindacale. Inaugurò anche la lunga stagione delle stragi fasciste. Non lo ritengo un caso. La destra estrema tentò di bloccare processi in atto nella società, e che erano sotto il segno della espansione dei diritti anche nel mondo del lavoro.
Lo Statuto dei diritti dei lavoratori fu voluto da un governo di centrosinistra. Il giorno dopo l’approvazione, L’Avanti! scrisse che finalmente la Costituzione entrava in fabbrica. L’Articolo 18 dello Statuto specificava che il licenziamento era possibile solo per giusta causa. L’Articolo 28 vietava i comportamenti antisindacali. Il Partito comunista si astenne, considerando lo Statuto insufficiente, perché garantiva soltanto i diritti dei lavoratori di imprese che avevano più di quindici addetti.
Ma ci furono altri passaggi, in seguito a nuovi spostamenti della storia. Ci sono leggi, dal 1990 al 2000, che introducono regolamentazioni alle varie forme di sciopero, in merito a servizi essenziali da garantire – comprensibilmente -, alla impossibilità di scioperare in determinati periodi, ai tentativi di conciliazione preventiva e al potere di precettazione da parte dei governi, con pene pecuniarie consistenti per i lavoratori e i sindacati che non obbediscono alla precettazione. Si avverte quindi il mutare di un clima, l’inizio di una nuova storia, non solo in Italia, ma nel mondo, dal thatcherismo e reaganismo alla crescente mondializzazione dell’economia – fenomeno sottovalutato e non sufficientemente studiato -, che in Italia ebbe un picco, quando il governo Berlusconi cercò di cancellare l’Articolo 18. La risposta del popolo che lavora, convocato al Circo Massimo dal segretario della CGIL Sergio Cofferati nel marzo del 2003 – ne ho viva memoria, perché ho vissuto quel momento – fu grandiosa. Tre milioni di lavoratori, o, meglio di cittadine e cittadini, salvarono l’Articolo 18.
Lo considero appunto il picco di una certa storia. Dopo cominciò, in crescendo – o decrescendo -, un’altra storia. Quella che vide il governo Renzi – di centro sinistra? – cancellare l’Articolo 18. Una storia tratteggiata da altri decrescendo. Sfiducia nelle Istituzioni, nei Partiti, disaffezione al voto. Non pochi opinionisti, in questi giorni di attenzione all’istituto dello sciopero, sottolineano anche la sfiducia nei confronti dei sindacati. Come potrebbero essere, i sindacati, indenni dalla sfiducia che sta attraversando le vite di chi lavora, di chi non trova lavoro, di chi soffre, di chi non trova facilmente punti di riferimento?
Vedo, però, che gli scioperi stanno tornando. In Europa e, inaspettati, negli USA, non di rado con risultati positivi. Se al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, se all’impoverimento crescente, e non solo degli ultimi, se, in particolare in Italia, ai bassi salari e pensioni spesso miserabili – sono situazioni che si ricavano da dati Istat, da studi sociologici scientifici, da lavori di centri di ricerca – si risponde con la mobilitazione e con scioperi, penso che la democrazia, come l’ha disegnata la nostra Costituzione, non possa che trarne vantaggio.
Il non ripiegarsi in solitudine sulle proprie difficoltà, pensando che non c’è nulla da fare, la partecipazione a lotte condivise, il sentirsi parte di un mondo che cammina, che ricerca, che manifesta il suo scontento in forme pacifiche e organizzate, è ossigeno per la democrazia. O chi sta in questo momento governando auspica un ritorno alle sommosse, alle azioni disperate, ai suicidi, facili da colpire, da cancellare? Se la vocazione securitaria di questo governo dovesse abbattersi anche sul mondo del lavoro, trattandolo come attore irresponsabile che danneggia la Nazione, potremmo concludere che è un governo che compie azioni antisindacali, come quelli tentati, senza successo, da Marchionne qualche anno fa. E come Salvini tenta oggi, precettando.
Le parole aggressive e di disprezzo che un ministro di questa Repubblica ha avuto per chi ha scioperato, venerdì scorso, sono estranee ai risultati civili, sociali e politici che, con un lungo e accidentato percorso storico sono arrivati nella Costituzione. Meloni assicura che lo sciopero è un diritto. Lo è ancora, e ci sono sindacati che lo stanno esercitando. La partecipazione allo sciopero di venerdì è stata buona. Ero in piazza XX settembre. Ho visto molta gioventù e un buon clima, con energia positiva.
Uno sciopero con ragioni molto politiche. Le richieste avanzate dai sindacati al governo in merito ai salari, alle pensioni, alla fiscalità non sono state accolte. Quindi? Alcune voci sottolineano che lo sciopero è uno strumento vecchio, novecentesco, che il mondo è cambiato. Quali sarebbero le novità necessarie da introdurre, in un mondo cambiato? E da quali attori dovrebbero essere introdotte?
Un quesito che riguarda in primo luogo tutto il mondo della politica. Ma riguarda anche la società civile costituzionalmente orientata, in una nuova alleanza da costruire, anche con i sindacati.