“L’art.33 dice: “La Repubblica deve aprire scuole su tutto il territorio nazionale” e un insegnante deve poter fare il mestiere, più bello del mondo, a Milano come a Crotone, con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Regionalizzare la scuola avrebbe significato creare una sorta di cittadinanza locale all’interno della quale i docenti sarebbero finiti col rispondere all’Assessore regionale di turno di contratti, trasferimenti, piano ferie e così via. E invece ce l’abbiamo fatta. Abbiamo raggiunto, e superato, l’obiettivo delle 50mila firme”.
Lo dice, con una punta di orgoglio il costituzionalista Massimo Villone, professore emerito di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Napoli Federico II, primo firmatario del progetto di legge di iniziativa popolare per dire no alla regionalizzazione.
Professore, è stato raggiunto e superato l’obiettivo delle 50 mila firme
Sono davvero molto felice, in verità siamo andati ben oltre, abbiamo raccolto le firme sia in modo tradizionale sia con lo Spid on line, eravamo da giorni ormai vicini alla meta ma sono stati mesi impegnativi. La raccolta firme è partita lo scorso novembre e finalmente siamo giunti alla meta. Ringrazio tutti quelli che hanno votato, vorrei poterlo fare uno ad uno.
Aver raggiunto tale obiettivo è importante perché la proposta di legge di iniziativa popolare è assistita per il regolamento del Senato da una garanzia di accesso in aula. Ovvero la raccolta di 50 mila firme è il requisito che la Costituzione pone per arrivare alla calendarizzazione in aula, grazie alla modifica nel 2017 dell’art.74 del regolamento del Senato. E questa è una novità importante, che ancora non c’è invece per l’iniziativa parlamentare comune. Il dibattito pubblico in aula costringe sempre le forze politiche a dover prendere una posizione e solleva il velo di oscurità che è stato steso sul tema dell’autonomia differenziata, di cui troppo poco si parla. Nonostante sia essa una priorità da ben 5 governi: da Gentiloni a Meloni, passando per il Conte 1, il Conte 2 e il Governo Draghi.
Cosa comporterebbe l’autonomia differenziata per la scuola
Con l’Autonomia Differenziata in Italia finirebbe la scuola pubblica nazionale, il che vorrebbe dire che ogni Regione andrebbe a formare una propria scuola. Ci sarebbero la scuola lombarda, quella piemontese, laziale o campana, ognuna con le proprie regole, ognuno con diritti diversi. Piero Calamandrei vedeva la scuola pubblica statale nazionale come strumento essenziale per l’identità della Repubblica.
Scuola e lavoro sono i due pilastri identitari di un paese, se miniamo uno dei due lo esponiamo a un forte pericolo per la democrazia. Non dimentichiamo che l’Italia è stata in passato un paese essenzialmente agricolo, in cui tanti parlavano solo il dialetto locale; è stata la scuola a unificare la lingua permettendo a un uomo del Sud di comprendere o lasciarsi comprendere da uno del Nord, e viceversa.
E quali invece, secondo lei, sarebbero le conseguenze per i docenti e la libertà di insegnamento?
Un condizionamento della scuola su base territoriale toccherebbe anche il regime giuridico: e questo comporterebbe conseguenze evidenti per esempio sull’accesso ai concorsi, sui programmi di insegnamento, su retribuzioni differenziate che inevitabilmente produrrebbero competitività territoriali.
In pratica, un insegnante del Nord sarebbe più ricco di un collega del Sud?
Noi abbiamo già esperienze di autonomia scolastica regionale, come in Trentino Alto Adige, ma i giudizi che arrivano non sono dei migliori. Il Contratto di Lavoro Nazionale, che sorregge da sempre le lotte sindacali, sarebbe la prima vittima dell’autonomia differenziata. Ma la scuola è solo uno dei campi che verrebbero penalizzati dall’autonomia differenziata.
Quali sono gli altri?
In primis la Sanità: lo abbiamo già visto durante il Covid e i risultati hanno lasciato parecchio a desiderare. Poi c’è il campo delle infrastrutture, per cui è noto l’interesse di regioni come la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, la Liguria. Ma l’Italia è una e indivisibile, non possiamo creare trasporti differenti tra Nord e Sud, già per altro penalizzato. Il gap ferroviario va colmato non accresciuto. E poi c’è il settore idroelettrico, che ad oggi rappresenta il 40 per cento delle fonti verdi: è già regionalizzato, e gli impianti sono in larga prevalenza collocati in regioni del Nord.
I fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) possono colmare questo gap?
Vede, c’è sicuramente una parte del Paese, e riporto le parole del Sindaco Sala, che dice: “Date a noi i soldi del Pnrr perché gli altri non sono in condizione di spenderli”. Ma sono fondi che invece sono stati stanziati proprio per superare i divari come quelli della scuola italiana, dove c’è senz’altro bisogno di investimenti differenziati. Il sistema scolastico italiano ha bisogno di una politica nazionale che colmi i divari già esistenti, affinché non ci siano studenti di serie A e di serie B e nessuno resti indietro. Perché il diritto al futuro non può essere differenziato.