Il disegno di legge Calderoli sulla Autonomia differenziata è stato definitivamente approvato dal Consiglio dei ministri dello scorso 16 marzo. Calderoli aveva promesso un confronto con le Regioni di cui avrebbe tenuto conto. In realtà la ragion politica è prevalsa sul merito, quindi le Regioni che si sono espresse sfavorevolmente al testo di legge governativo sono risultate solo quattro (Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Puglia), quelle rette dal centrosinistra che pure, soprattutto nel caso dell’Emilia, ha le sue pesanti responsabilità per avere avviato il cammino di questa pessima proposta.
L’Anci aveva espresso invece un marcato dissenso. Ma l’esito finale è stato un testo di legge che, salvo qualche integrazione scarsamente significativa, ha confermato l’impianto iniziale, ribadendo che non ci saranno nuovi oneri per la finanza pubblica. Il che liquida in partenza la possibilità che ci siano prestazioni uniformi sul territorio nazionale, poiché il riequilibrio fra Sud e Nord non si può fare coi fichi secchi!
Ora spetterà al Parlamento esaminare il disegno di legge. Ma, anche se il disegno di legge non ci fosse, basterebbero le intese tra Stato e le singole Regioni a fare passare il progetto di autonomia differenziata, visto che il parlamento su queste è chiamato ad una semplice ratifica. Come sappiamo è soprattutto la Lega che spinge per l’approvazione rapida del testo. Sarebbe una sua vittoria politica. La Meloni e la sua parte politica sono più interessati a portare avanti una revisione costituzionale nel senso del presidenzialismo. Ma le ipotesi in questo campo sono ancora indefinite (alla francese, all’americana, alla tedesca, in questo ultimo caso con il premierato?) e comunque richiederebbero tempi più lunghi di approvazione.
Tutto ciò ci richiama ad un impegno più intenso contro l’autonomia differenziata. Nel congresso della Cgil, attraverso le parole del segretario Landini, il pronunciamento contrario al progetto governativo è stato forte e chiaro. Solo che per bloccarlo effettivamente bisogna modificare gli articoli della Costituzione, cioè parti del 116 e del 117, introdotti nel 2001 che già ora permettono l’attuazione della autonomia differenziata tramite intesa fra Stato e singole Regioni. Quindi bisogna sostenere la proposta di legge di iniziativa popolare, elaborata da Massimo Villone e moltissimi altri giuristi, che chiede di impedire il passaggio alle regioni di competenze fondamentali per lo Stato e restituisce al Parlamento un vero ruolo decisionale in materia, introducendo anche una clausola di supremazia dello Stato in materie di interesse strategico per il paese.
Alle parole però non corrispondono del tutto i fatti. Non tutte le categorie della Cgil si stanno muovendo nella raccolta (anche digitale) delle firme, mentre manca poco più di un mese al termine della raccolta ed è necessario quindi un colpo di reni per raggiungere l’obiettivo.
Tanto più che, nel corso della manifestazione del 17 marzo a Napoli delle centinaia di Comuni raccolti sotto la sigla “Recovery Sud”, la stessa vicepresidente del Senato, Mariolina Castellone, ha dichiarato che fisserà subito la discussione sulla materia appena la proposta di legge di iniziativa popolare sarà depositata, come del resto prevede il regolamento di quel ramo del Parlamento. Almeno la discussione è garantita. Il rischio che le 50mila firme finiscano in un cassetto come nel passato non c’è. Ma bisogna raggiungerle.
Nel frattempo le prese di posizione, le dichiarazioni, le argomentazioni contrarie all’autonomia differenziata si moltiplicano, sia a livello istituzionale (vedi ad esempio l’intero consiglio comunale di Napoli), sia a livello politico (vedi le dichiarazioni di Elly Schlein), sia a livello di centri studi.
A quest’ultimo riguardo è significativo citare quanto afferma l’autorevole Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano diretto da Gianpaolo Galli, ex deputato del Partito democratico, nonché ex direttore della Confindustria tra il 2009 e il 2012, che boccia il progetto considerandolo “un chiaro win-win (vittoria comunque ndr) per le Regioni (ovvero i suoi gruppi dirigenti ndr), ma rischia di essere un lose-lose (perdita in ogni caso ndr) per lo Stato e la collettività nazionale, costretti a rincorrere con extra risorse gli squilibri che così si possono generare”. Per conquistare gli appetiti del ceto politico regionale, il governo ha recentemente elencato 500 funzioni statali che potrebbero diventare di competenza regionale. E così la disarticolazione dello Stato sarebbe compiuta.
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