LA SITUAZIONE NON è molto mutata dal 2015 in poi, salvo che Veneto ed Emilia-Romagna hanno guadagnato una posizione. In sostanza il triangolo industriale italiano esiste ancora, solo che ha spostato il baricentro a est, rimanendo imperniato sulla Lombardia, ed appare meno concentrato nelle unità produttive e più diffuso sul territorio, costituendo, come nel caso dell’Emilia-Romagna, parte del sistema produttivo allargato tedesco.
Leggendo questi dati, su cui gli statistici stanno ancora lavorando per i necessari completamenti e aggiornamenti, viene in mente quanto scriveva Kenichi Ohmae, che è stato senior partner della McKinsey & Company, nonché consulente molto apprezzato di governi e multinazionali. Un vero alto funzionario del capitale. In quello che probabilmente è il più noto dei suoi libri, comparso nella traduzione italiana nel 1996 con il programmatico titolo La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Ohmae, dopo essersi vantato con ragione di avere predetto in anticipo il crollo dell’Urss, scriveva che gli Stati-nazione erano oramai diventati «unità di business artificiose, o addirittura inammissibili, in un’economia globale».
AL POSTO LORO SI ERGEVANO i nuovi «Stati-regione» – di cui il Kansai attorno ad Osaka e la Catalogna erano alcuni degli esempi portati. In base a questa analisi si domandava che senso avesse «pensare all’Italia come un’entità economica coerente all’interno della Ue» quando «esistono invece un Nord industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità». Tanto più che «non c’è un gruppo di interesse che tragga particolare vantaggio dai compromessi politici e sia quindi disposto a sostenerli con entusiasmo».
La via indicata non poteva essere dunque che la fine dell’illusione cartografica, l’abbattimento (per il capitale e i suoi agenti) dei confini diventati virtuali, la ricerca dell’unione tra regioni forti, con il corollario dell’abbandono al loro misero destino di quelle deboli. Le crisi che si sono succedute in questi anni, quella economico-finanziaria e quella pandemica, hanno provocato una frammentazione delle catene di approvvigionamento e di creazione del valore.
MA QUESTO NON PONE fine alla globalizzazione, anzi ne esalta gli aspetti che vedono rinforzarsi il legame tra aree geograficamente e culturalmente più vicine. Se rimaniamo al quadrante italiano, anche i recenti dati dell’Agenzia per la coesione territoriale, confermati nella sostanza da analoghe ricerche di Bankitalia, dimostrano l’aggravarsi delle diseguaglianze, che peggiorerà nel 2023.
Per fare solo qualche esempio: la spesa pubblica procapite è pari a poco meno di 19mila euro in Lombardia, viaggia sui 16mila in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14mila in Sicilia, in Calabria a 15mila, in Campania a 13.700 euro. Ben si comprende la reazione di 51 sindaci del Sud, di diverso schieramento politico, che si sono appellati al capo dello Stato per fermare il progetto Calderoli.
LA «SECESSIONE DEI RICCHI» non è quindi uno slogan polemico, ma l’esatta definizione dei processi economici che sottendono al progetto di autonomia differenziata. Se è giusto quindi, secondo la nota tattica di dividere l’avversario – cosa che per la verità riesce più a quest’ultimo che non a noi – evidenziare i contrasti tra la fretta della Lega e l’insistenza sul presidenzialismo della Meloni, non possiamo illuderci che questo basti per fermare un progetto già in atto dal punto di vista materiale di cui si vorrebbe giungere ad una formalizzazione con le intese tra stato e regione che non passano per il Parlamento, come prevede la bozza Calderoli.
Per bloccarlo serve la capacità di legare assieme la questione sociale con quella istituzionale e costituzionale. E’ necessario modificare quelle parti del Titolo quinto, che deriva dalla sciagurata modifica costituzionale del 2001 voluta dal centrosinistra, cui si aggrappano i sostenitori dell’autonomia differenziata. E sostenere la raccolta di firme per una legge costituzionale di iniziativa popolare.
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