Il famoso pronunciamento del 28° presidente degli Stati uniti, Woodrow Wilson, sul finire della Prima guerra mondiale, secondo cui le sanzioni economiche sarebbero peggiori della guerra, pare ormai relegato al passato. Dopo un secolo, Biden ha cercato di resuscitarlo dicendo che l’unica alternativa ad esse sarebbe una terza guerra mondiale. Ma non è andato al di là del richiamo orrorifico.
Le ragioni sono più d’una.
La reciproca dipendenza economica tra gli Stati anche in un quadro, quale quello attuale, di de-globalizzazione, moltiplica e diffonde gli effetti delle sanzioni economiche e allo stesso tempo le depotenzia.
Non solo perché la loro efficacia dipende in modo decisivo dal ruolo dominante che assume nella geoeconomia e nella geopolitica la potenza che le impone. E la Ue è ben lontana dall’ambire a quel ruolo, mentre gli Usa cercano di invertire o almeno frenare un declino, evidente in particolare negli ultimi vent’anni, che rischia di mettere fine al “secolo americano”. Ma anche perché non è affatto detto che il vero obiettivo delle sanzioni sia quello di evitare la guerra.
Se da un lato la governatrice della Banca centrale russa, Elvira Naibullina, ha rotto il muro dello spavaldo patriottismo putiniano, avvertendo che le sanzioni, in atto dal 2014, dovrebbero imporre cambiamenti strutturali all’economia russa a cominciare dal peso del suo modello esportativo, dall’altro le contromisure messe in atto dal sistema finanziario russo non sono state prive di efficacia.
I costi delle sanzioni finanziarie sono diseguali per chi le pratica. Minimi per gli Stati Uniti, ben più rilevanti per i paesi europei, in particolare Germania e Italia. I costi delle sanzioni non vengono equamente distribuiti tra i paesi della Ue e ciò mina la possibilità di accordo tra di essi.
Il risultato è che la repressione finanziaria è stata debole, parziale, variabile, dunque inefficace. La mossa sull’obbligo dell’acquisto dei beni energetici in rubli ha scompaginato le carte nel campo europeo. La moneta russa se ne è avvantaggiata. Alla fine di febbraio il valore del rublo era dimezzato, ai primi di maggio è tornato ai valori precedenti l’aggressione.
La seconda ragione è che il passaggio da sanzioni finanziarie già parziali a quelle sui prodotti energetici è ancora più complicato. Non solo per la mancanza di unità di intenti tra i paesi della Ue, ma per la composizione dell’export russo in questo campo.
Vari centri studi ci dicono che il 60% delle esportazioni russe avviene nel settore energetico, tanto da finanziare con buon margine l’intero import di quel paese. Tuttavia diverso è il peso, sia per l’esportatore russo che per i paesi importatori, di un blocco operato sul gas, piuttosto che sul petrolio o sul carbone.
Ma le scelte sanzionatorie hanno tenuto conto di queste differenze solo dal punto di vista degli interessi dei paesi importatori, non dell’efficacia “punitiva” sulla Russia. Esse mirano a rallentare il processo di transizione ecologica anziché cogliere l’occasione per un balzo in avanti. Lo si è visto in Italia (riapertura a trivellazioni, rigassificatori ecc.) e nel dibattito sulla tassonomia delle fonti energetiche a livello Ue.
Nel contempo la guerra con gli strumenti bellici e quella con le sanzioni si abbatte pesantemente sui nostri vicini: i Balcani, il Levante, il Nord Africa. Un trickle down, un effetto “gocciolamento”, all’incontrario. Qui la recessione economica sarà spietata con probabili carestie determinate dall’impennata di prezzi di grano – mentre quello ucraino resta bloccato e il nuovo raccolto si prevede scarso – orzo, mais, con conseguente aumento inarrestabile dei processi migratori.
L’Italia e la Ue dovrebbero progettare un Mercato Comune. Mediterraneo, come ha scritto su queste pagine Tonino Perna, ma non è nella testa delle elites europee.
Questo dovrebbe essere il vero clivage fra civiltà e barbarie. Le sanzioni à la carte convivono con la guerra. La produzione bellica è sempre andata storicamente d’accordo con lo sfruttamento dell’energia fossile e la proliferazione nucleare.
Ecco perché le tanto decantate sanzioni economiche, sia nella loro versione finanziaria, già spuntata, che in quella nel campo dell’economia reale, mai interamente messa in opera, non rappresentano nel nostro presente l’alternativa alla guerra, ma possono coesistere con questa, perpetrando il vecchio modello di sviluppo nei suoi effetti più disastrosi per l’umanità e per il pianeta.
Francesco ha detto che la Chiesa usa le parole di Gesù, non quelle della politica. Giusto. Ma quest’ultima resta muta, quando l’unica alternativa è sempre più chiaramente l’apertura di una trattativa che porti ad una conferenza internazionale, sotto l’egida dell’Onu, che garantisca la neutralità dell’Ucraina abbandonando l’idea di un annichilimento russo.
Dalla guerra ognuno esce perdente.