Una domanda che tenne la politica italiana con il fiato sospeso, ed ottenne alla fine l’esito vincente consegnato alla storia con il voto del 1994. Succede anche oggi. Da una posizione del tutto minoritaria, Berlusconi ha messo tutti in scacco. Si candida o non si candida? Lo sapremo solo domenica, a poche ore dal voto.
Sembra difficile che si candidi, alla fine. È ben vero che le pulsioni senili, alimentate dall’assunto «ora o mai più», sono le più difficili da contenere. Potrebbe non accontentarsi di avere riconquistato centralità, e un ruolo di kingmaker. Ma è abbastanza chiaro a tutti che il voto di mezzo parlamento per Berlusconi renderebbe probabili la caduta del governo e nuove elezioni a breve. Nella sciagurata ipotesi, poi, che risultasse eletto, renderebbe la istituzione Presidenza esecrabile agli occhi di mezzo paese. Un vero contrappasso per Mattarella, dimissionario per rispetto a quella stessa istituzione.
Assumiamo dunque che non si candidi, e che faccia un nome. Quale? Anche qui è abbastanza chiaro che le carte di maggior peso sul Quirinale sono state e sono Mattarella e Draghi. Qualunque altra scelta, giusto o sbagliato che sia, è un minus, sul fronte interno e ancor più su quello internazionale. La carta Mattarella sembra ormai tolta dal tavolo, salvo sorprese inaspettate. Rimane Draghi.
Se Berlusconi facesse il suo nome metterebbe in riga il centrodestra e buona parte del centrosinistra. Ci sono malpancisti che temono elezioni a breve per il cambio di palazzo del premier. Ma potrebbero alla fine ritenere Draghi – garante della scadenza naturale della legislatura nella nota esternazione pre-natalizia – più affidabile di un leader che offre la medesima assicurazione senza avere strumenti per sostenerla, e magari vedendo il voto come passaggio utile per gli equilibri interni di partito.
Traspare in molti commenti la considerazione che i partiti non vogliono Draghi al Quirinale perché ne soffrono il peso. Diciamo subito che se i soggetti politici vogliono riguadagnare uno spazio di manovra, è meglio avere Draghi al Quirinale piuttosto che a Palazzo Chigi. Il timore di un governo etero-diretto dal Colle più alto è sovra-stimato. Il capo dello stato può influire, ma alla fine l’esecutivo è nelle mani dei soggetti politici in parlamento, sempre che ne abbiano la forza. Ed è assai più probabile che la trovino con Draghi fuori del consiglio dei ministri che non il contrario.
Si argomenta: il paese ha bisogno di continuità, e quindi Draghi rimanga dov’è. Ma troppa continuità fa male. Per chi guarda a sinistra il governo in carica è sbilanciato dalla parte opposta. Si vorrebbe più attenzione ai diritti, all’eguaglianza, al superamento dei divari territoriali. Si vorrebbe nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza maggiore fedeltà al mandato europeo iscritto nella assegnazione dei fondi. Si vorrebbe nella transizione ecologica maggiore resistenza a sirene antiche come il gas e il nucleare. Si pensa che un obbligo vaccinale generale avrebbe consentito risultati migliori nella gestione della crisi pandemica. E così via. Il trasloco di Draghi potrebbe aprire maggiori spazi per correzioni. Promoveatur ut amoveatur.
Va anche sottolineato che una discontinuità ci sarà comunque. Se anche al voto quirinalizio seguisse una bonaccia politica, questa non durerebbe più di pochi mesi. Dopo, saremo già sostanzialmente in una campagna elettorale prevedibilmente assai aspra. Possiamo davvero pensare che la mareggiata non entri in consiglio dei ministri e in parlamento? Draghi certamente sa che rimanendo al governo andrebbe incontro a tempi assai difficili.
Probabilmente questa consapevolezza è tra i motivi della sua autocandidatura al Quirinale. E potrebbe in caso di fallimento sostenere la scelta di non rimanere a Palazzo Chigi. Nelle turbolenze, l’occasione sarebbe facile da costruire. Come ho già scritto su queste pagine, anche se Draghi può non piacere, e a molti non piace, il paese non può permettersi di licenziarlo. Ma non è vero il contrario: la sua citazione nei libri di storia l’ha già acquisita. Mentre una lunga agonia politica potrebbe spostarla dall’evidenza del testo alla relativa oscurità di una nota.