Una delle conseguenze della pandemia è stata la ricomparsa del lavoro vivo, compreso e soprattutto quello manuale. In realtà non era mai sparito, ma era finito nell’ombra. Anche perché le basse retribuzioni con cui veniva compensato non dovevano generare eccessivo scandalo nel Paese. Quindi più che di una ricomparsa dovremmo propriamente parlare di un ritorno alla piena visibilità.
Mi riferisco non solo al lavoro professionale, a partire dai medici, ma anche alle varie tipologie di lavoro (prevalentemente) manuale o ritenuto scarsamente professionale, ma non per responsabilità di chi lo esercita. Il riferimento agli infermieri e in generale al personale paramedico è d’obbligo. Ma non si tratta solo di questo.
Basta guardare ai rider e ai driver che hanno garantito le consegne a casa durante i lockdown e le varie misure limitative della circolazione delle persone. Basta pensare a tutte le tipologie di lavoratrici e lavoratori che hanno garantito il flusso dei beni di prima necessità a cominciare da quelli alimentari, dalla terra alla tavola, dalle campagne alle città. Basta ricordarsi di come sia stato difficile fermare il lavoro nelle fabbriche, vista l’ostilità delle associazioni datoriali innamorate della continuità della produzione.
Ebbene per quanto il peso del lavoro immateriale sia percentualmente cresciuto nelle cosiddette società mature, quello materiale ha dimostrato la propria insostituibilità per il funzionamento delle stesse proprio nel momento in cui erano percorse da un grave pericolo su scala mondiale, per colpa di un ospite inatteso anche se non del tutto imprevedibile.
Eppure a quel lavoro non solo non si dà il giusto riconoscimento dal punto di vista retributivo e da quello della gerarchia sociale e dell’immaginario collettivo, ma lo si lascia nudo, privo di tutele.
Indubbiamente la morte sul e per il lavoro di giovani donne e uomini in questi giorni hanno suscitato una notevole emozione costringendo i mass media ad occuparsene. Si è così visto che la condizione in cui si svolgono le prestazioni lavorative non sono cambiate durante la pandemia rispetto a prima. Anzi. In tre mesi abbiamo avuto 185 morti sul lavoro, più di due al giorno, compreso quelli festivi.
L’indignazione non basta, pur essendo una buona base di partenza. C’è bisogno di una politica attiva che tuteli la vita e la salute delle lavoratrici e dei lavoratori. Questa non è fatta solo di leggi, anche se queste ovviamente sono indispensabili, ma di un controllo costante delle condizioni dei luoghi di lavoro e delle modalità con cui viene svolta la prestazione lavorativa.
È un compito che lo Stato non può lasciare al delegato sindacale sulla sicurezza, quando c’è. Ma che deve assumere in prima persona. Nel 2015 venne deciso di creare l’Ispettorato nazionale del lavoro, unificando gli ispettorati del ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail. Sulla carta una decisione logica, perché avrebbe potuto servire ad una razionalizzazione e a una maggiore efficacia nei controlli. Solo che non ha funzionato. E non avrebbe potuto farlo, viste le condizioni nelle quali l’Ispettorato si trova.
L’ultimo “Rapporto annuale dell’attività in materia di vigilanza e di legislazione sociale” che risale al 2019 ci rende noto che il personale ispettivo risulta essere pari a 2.561 unità, Ma non tutti sono impiegati nella ispezione e vigilanza attive. Nelle retrovie – vecchio male della Pubblica amministrazione italiana – a sbrogliare attività d’ufficio vi sono circa un migliaio di addetti cosicché gli ispettori s tempo pieno che si muovono sul territorio e visitano i luoghi di lavoro non sono più di 1.550. Tra questi bisogna però distinguere quelli che posseggono una specializzazione specifica nel campo della salute e della sicurezza. Questi ultimi sono ormai ridotti a 222, in un paese che si contraddistingue per la numerosità delle aziende, in special modo di piccole dimensioni, ove unità le misure protettive sono le più carenti, anche per la mancanza del sindacato che può esercitare rivendicazioni e controlli specifici.
Come sappiamo infatti, l’incidentistica sul lavoro non deriva soltanto dalla disapplicazione plateale delle più elementari norme sulla sicurezza previste dalla legislazione, né dalla vetustà degli impianti o dalla inesperienza dei lavoratori, ma in misura considerevole dall’intensità del lavoro stesso, dalla pesantezza dei suoi ritmi, dal prolungamento degli orari di lavoro: tutti elementi che appannano o annullano del tutto le capacità di autodifesa del singolo lavoratore.
Qualche tempo fa, nell’agosto del 2019 – lo si apprende anche da un recente dibattito parlamentare – era stato bandito un concorso per 619 ispettori del lavoro e per 131 funzionari, Ma di quel concorso si sono perse le tracce. Colpa certamente anche delle misure anti Covid – un bel paradosso – ma soprattutto del fatto che si è preferito da parte del governo dare la precedenza a concorsi per altri ministeri che non hanno afferenza con il tema della sicurezza del e sul lavoro.
Parlare di omicidi bianchi e di lacrime di coccodrillo non è dunque esagerato. Vi sono delle precise responsabilità politiche che rendono possibile il perpetrarsi di una scia di uccisioni quotidiane che assume le proporzioni di un massacro. Se diamo un occhiata ai propositi contenuti nel Piano di ripresa e resilienza, non troviamo nessun impegno a invertire la situazione. Anzi. Si parla di semplificazioni procedurali, di revisione del codice degli appalti, tutte cose, non è difficile intuirlo, che porteranno ad abbassare le tutele e i controlli. Invece questo massacro va fermato. Questa è una priorità sociale.