Negli anni ‘Novanta del secolo scorso, l’Italia attraversava una grande ubriacatura federalista. A dispetto dei tanti che allertavano sugli enormi problemi, anche pratici, che comportava ampliare la potestà legislativa delle regioni, le forze politiche maggioritarie sembravano attraversate da una vera febbre devolutiva.
La modifica del Titolo V della Costituzione fu quindi approvata sul finire della legislatura per volontà della maggioranza, che allora era di centrosinistra. Il testo fu proposto il 19 settembre 2000, ed approvato due giorni dopo.
L’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, nel testo riformulato, prevede la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre), ferme restando le particolari forme di cui godono le Regioni a statuto speciale (art. 116, primo comma).
La norma così introdotta non ha avuto attuazione immediata. Con la legge di stabilità per il 2014, il Parlamento ha approvato alcune disposizioni di attuazione dell’art.116, terzo comma, Cost., relative alla fase iniziale del procedimento.
Dopo i referendum in Lombardia e Veneto del 2017 e la richiesta dell’Emilia Romagna, queste regioni hanno firmato, il 28 febbraio del 2018, una pre-intesa, relativa a cinque materie specifiche (tutela di ambiente, salute, istruzione, lavoro e rapporti internazionali). Da un’iniziale “richiesta” di trasferimento alle regioni di cinque materie, tra quelle indicate dall’art. 117, si è poi passati (Veneto e Lombardia in particolare) alla pretesa di deliberare sulla totalità delle materie.
Le due regioni propongono di introdurre il principio della compartecipazione ai tributi erariali, cioè per la prima volta si prevede che la spesa prestabilita ad esempio per sanità e istruzione dipenda dalle tasse riscosse in più in una specifica regione. Fino ad oggi, invece, la ripartizione dei fondi fra le regioni è stata effettuata in base ai fondi spesi negli anni precedenti (spesa storica); viceversa le regioni che chiedono il trattamento differenziato vogliono sganciarsi da questo criterio generale ed affermare il principio per cui le somme loro erogate devono dipendere da quante tasse pagano i cittadini residenti sul loro territorio.
Sarebbe un passaggio significativo e problematico. Infatti si stabilirebbe il principio in virtù del quale il livello dei servizi nella regione non dipende dai ‘bisogni’ ma dal ‘reddito’ regionale. Il giudizio, su questa innovazione, è ovviamente negativo: gli individui sono tassati in base alla loro capacità contributiva, non in base alla residenza; e se si restituiscono servizi inerenti ai diritti civili e sociali non in base alle necessità di ciascuno ovunque si trovi, ma su base territoriale, si divide lo Stato in aree reddituali e si realizza una ripartizione iniqua, sulla base di criteri di merito del tutto infondati e pretestuosi.
Il progetto di autonomia differenziata rischia, così, di violare implicitamente i principi costituzionali di perseguimento dell’eguaglianza sociale (artt. 3, 32,) e di integrità della Repubblica (artt. 5, 117-119), di parità e progressività della tassazione (art. 53) e di determinazione dei principi della funzione legislativa (art. 76).
Tuttavia, oltre al problema fiscale e di risorse, vi è un problema ulteriore, che qui specificamente va approfondito.
La scelta di modificare, sempre più, l’Italia in senso federale genera enormi problemi concreti.
Scegliere il ‘federalismo italiano’ vuole dire consentire, ancora maggiormente, alle regioni italiane di legiferare. Nel nostro Paese, al posto di una disciplina legislativa, dovremmo averne venti, ognuna con efficacia territoriale limitata.
Spostare le leggi dal Parlamento nazionale alle Regioni italiane è una scelta insensata, inefficiente, costosa e caotica, per molte ragioni.
Una prima ragione è di ordine generale, di buona organizzazione del sistema pubblico. Le leggi devono avere la stessa dimensione territoriale dei sistemi che regolano e dei problemi che affrontano, se vogliono sperare di governarli. Il sistema economico globale, di questa nostra epoca, ci impone scelte forti, di dimensione pari al sistema che vorremmo regolare. L’Europa stessa appare una dimensione quasi insufficiente. Di fronte a questo scenario, frammentare l’Italia in micro-sistemi normativi è autolesionistico.
Si tratta di un antistorico ritorno agli stati pre-unitari, con conseguenze ancora più dannose, perché oggi l’economia italiana non è più solo agricola.
Occorre allora approfondire meglio il tema dell’inefficienza e dei costi economico-sociali dell’autonomia differenziata.
Non si devono sottovalutare gli aspetti di cui sopra, ossia di lesione della solidarietà tra regioni, ma occorre mettere in luce un problema ulteriore, noto ampiamente a chiunque si occupi professionalmente di diritto.
Ampliare l’autonomia legislativa comporta una prima evidente conseguenza: come detto, la regione deve legiferare. Quindi, come anticipato, nel nostro Paese in alcuni campi avremmo una disciplina legislativa, in altri dovremmo averne venti.
Vediamo cosa significa.
1) Venti uffici regionali dovrebbero redigere venti leggi di buon livello, nei tempi previsti. Leggi che si armonizzano tra loro, con la legislazione statale, con le norme comunitarie.
È una pura illusione, ed è un costo sociale ed economico insostenibile. In Italia abbiamo un serio problema a produrre testi legislativi di buon livello anche semplicemente a livello statale. Che tutte le regioni possano legiferare in materie rilevanti a un buon livello è illusorio.
Ognuno di noi, quando legge in fondo ad un testo normativo «con decreto attuativo da emanarsi entro…» sorride, perché sa che non verrà emanato nei tempi previsti. Se legge che parte dell’attuazione è demandata alle regioni non sorride, ma piange. La attuale situazione è spesso definita di ‘analfabetismo amministrativo’.
Inutile pensare di poter risolvere questo problema in tempi brevi.
2) C’è un’insopprimibile necessità di uniformità del sistema normativo.
In primo luogo, occorre distinguere tra atti amministrativi e regolamentari e atti normativi veri e propri. La norma fissa un principio generale ed astratto, che per natura è uniforme in base a un sentire politico-giuridico comune. Questo sentire non è uniforme solo in Abruzzo e Molise, ma lo è ormai a livello europeo.
Qualsiasi necessità di ‘vicinanza’ alle comunità locali è conseguibile attraverso atti amministrativi regolamentari, che possono comunque adeguarsi alle realtà regionali e territoriali. È sufficiente che la norma statale lasci una sufficiente potestà all’ente locale in termini di applicazione territoriale della norma.
Tutti noi percepiamo che l’ente veramente locale è il Comune, che non ha potestà legislativa. Ma ha una possibilità di intervento nella vita dei cittadini ampiamente superiore alla Regione.
L’esperienza legislativa regionale ormai pluridecennale conferma quanto sopra. Le Regioni non hanno prodotto leggi decisive, fondamentali nelle vite dei loro abitanti. Le c.d. leggi regionali potevano essere serenamente atti normativi secondari, regolamentari. La maggior parte delle leggi regionali ha ad oggetto impegni di spesa, fondi, finanziamenti etc. Tutte cose che il Comune decide nella stessa misura, pur senza potestà legislativa.
3) Nei rari casi in cui la regione legifera “veramente”, si determinano talora risultati paradossali. Esempio: il D.Lgs. 502/1992 in materia sanitaria (all’art. 8-ter) stabilisce che le strutture sanitarie (ambulatori e studi medici compresi) sono sottoposti ad autorizzazione regionale: «L’autorizzazione all’esercizio di attività sanitarie è richiesta per gli studi odontoiatrici, medici e di altre professioni sanitarie, ove attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale, ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di particolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente».
Le regioni devono decidere quali siano le procedure terapeutiche che comportino un rischio per la sicurezza del paziente.
A tutti noi appare chiaro che se una procedura comporta un rischio per il paziente in Molise lo comporta anche nelle Marche. Ma le regioni, a loro modo correttamente, nominano … chi una commissione medica … chi un Gruppo di Lavoro etc., per addivenire, ognuna per sé, a definire quali siano le “procedure terapeutiche che comportino un rischio per la sicurezza del paziente”.
Naturalmente con risultati difformi in tutta la penisola, e con la sensazione che alcune scelte siano casuali e dettate dalla necessità di far presto.
Nel frattempo per anni la legge nazionale non viene attuata.
Nelle richieste di autonomia differenziata, la Regione Lombardia ha chiesto di poter legiferare in materia di ‘guide alpine’. Ciò significa che ci si avvia a definire in modo differenziato i requisiti che debba avere una guida in Lombardia, rispetto a quella piemontese o veneta. E si pone poi subito il problema se la guida ‘lombarda’ possa poi svolgere la sua attività in Molise, dove, eventualmente, i requisiti sono più stringenti, o più laschi.
Altro esempio. Le regioni hanno combattuto alla Corte Costituzionale contro l’adozione del codice dei Contratti (D.Lgs. 163/2006, ora non più vigente), che recepiva le direttive CE 17 e 18 del 2004. Le regioni sostenevano la loro competenza (almeno in parte) in materia. Col risultato che, se la Corte Costituzionale (sent. 431/2007) non fosse intervenuta, avremmo avuto (più) procedure di affidamento “regionali”.
Insomma avremmo avuto venti norme sugli appalti pubblici.
Il terrore si era diffuso tra gli operatori, di fronte alla paventata proliferazione di normative già caratterizzate da una notevole complessità.
E torniamo alla domanda di cui sopra. Quale motivo induce a ritenere che le procedure di gara debbano differire sul territorio italiano, quando viceversa è nell’intera Europa che tendono a uniformarsi? Il moltiplicarsi di discipline, in un settore di questo tipo, in che modo si lega alle esigenze di rispecchiare nella normativa le peculiarità locali? I minori termini per partecipare alla gara sono davvero imposti da peculiarità locali?
4) La proliferazione di enti, che consegue a ogni passo verso il ‘federalismo’ (e tale è l’autonomia differenziata) comporta un enorme incremento di costi pubblici, che allo stato attuale non ci possiamo permettere.
Ogni regione dovrà redigere la sua regola che stabilisca i requisiti delle guide alpine, e questo avrà dei costi. E ciò vale per ogni funzione legislativa ‘delegata’.
Si pensi ai posti di sottogoverno, alle consulenze, ad affitti e uffici. Il tutto per ottenere una normativa a macchia di leopardo.
Si può quindi trarre qualche conclusione. La questione federalista, abilmente sfruttata da forze politiche spregiudicate, come la Lega, nasce principalmente come lotta tra regioni per la ripartizione di fondi. La lotta per i fondi è stata accompagnata da una richiesta di potere legislativo, che consenta di ampliare la burocrazia e i posti di sotto-governo.
In sostanza la spinta verso il federalismo (all’italiana) è una delle tante manifestazioni della inarrestabile superfetazione della classe politico-amministrativa.
In realtà non potrà mai dipendere dalla potestà legislativa regionale la ripartizione delle risorse economiche tra regioni e verso lo Stato centrale. Quanta parte delle risorse di un territorio rimane nel territorio, e quanta va al ‘centro’, dovrà essere deciso dallo Stato centrale, per tutti nella stessa misura.
Se si vuole fornire risposta alla richiesta di adeguamento della normativa sovraordinata, con le peculiarità del territorio, la giusta combinazione è, invece, quella di autonomia politica e controllo contabile. La comunità territoriale è più vicina al cittadino, ma anche più vicina al malaffare. Un controllo centralizzato, almeno su parametri generali di buona amministrazione e contabili, dovrebbe essere ripristinato con urgenza.
All’ente locale devono spettare le scelte amministrative. Deve scegliere se e dove costruire il ponte, non definire le norme di sicurezza sulla costruzione dei ponti. La sicurezza di un ponte è un dato oggettivo e non territoriale, ed è fonte di confusione ed inutile spreco di risorse definire norme diverse luogo per luogo.
In questo contesto, la richiesta di ‘autonomia differenziata’ aggiunge un ulteriore problema.
L’Italia in crisi non può permettersi di rendere ancora più astruso e complesso il meccanismo decisionale, la chiarezza normativa.
Inoltre si riconsideri l’assurdo e la difficoltà per gli operatori e le imprese di operare su un territorio frammentato con normazioni differenti, laddove, nel caso di autonomia differenziata, si porrà anche il problema di non sapere con certezza se sulla materia —in quella specifica regione— vi è normativa nazionale o locale.
Un aumento dell’autonomia legislativa non serve a nulla; con una normale autonomia amministrativa si ottiene tutto quello che è necessario ad adeguare le norme alle realtà territoriali.
È dunque giunto il momento di prendere coscienza e arrestare questa spirale autodistruttiva in cui è caduta la nostra società.
Non abbiamo bisogno di un numero maggiore di leggi, non abbiamo bisogno di altri palazzi, altri tribunali, altri enti, e di ulteriori enti che deliberano sui conflitti di competenza.
Abbiamo bisogno di poche, chiare, leggi di livello nazionale ed europeo. Abbiamo bisogno di competenze definite, e possibilmente ridotte numericamente, e di autonomie territoriali in cui siano consentite scelte amministrative ampie ma controllate ed efficienti.
La proposta federalista e dell’autonomia differenziata si inscrive a suo modo nella tendenza (oggi definita populista) a rilanciare, spostare l’attenzione, non affrontare i problemi reali. La norme, la riforma, non vengono usate per i fini propri (fare leggi buone che funzionino, condivise dai cittadini, verificare se attraverso la legge si siano raggiunti gli obiettivi), ma solo per avere più fondi.
La riforma federalista e la legge vengono usate con effetto consolatorio. L’obiettivo non è la modificazione della realtà che la legge dovrebbe produrre. La legge serve a rassicurare, a prendere tempo rispetto alla soluzione reale dei problemi. Il problema è che, come sempre in questi casi, il falso rimedio aggrava il male.
Peraltro, come è emerso con il Covid, non appena si pone un problema reale, le regioni si guardano bene dal chiedere più autonomia nell’affrontarlo, ed anzi, pretendono che sia lo Stato centrale ad assumere le scelte impopolari.
La richiesta di autonomia, come bandiera, gode ancora di una buona immagine, apparentemente, nelle regioni interessate.
In Italia, come tutti sanno, periodicamente vi sono ondate emotive. Parole d’ordine vengono lanciate e fanno presa sull’opinione pubblica. Riforme vere o fantasiose percepite come la panacea di tutti i mali. Per decenni, parole viaggiano sulle ali della folla, senza che i più si interroghino sulle reali conseguenze delle riforme proposte.
A un certo punto queste riforme vengono, finalmente, guardate con gli occhi del reale, e non del sogno. Un breve momento di realismo, poi il pendolo riparte in direzione opposta (e travolge, nel viaggio di ritorno, più di quello che dovrebbe). Ad esempio, nell’inevitabile reazione che seguirà alla disgregazione normativa, vi è il rischio che vengano travolte, più del lecito, le autonomie locali.
Chi si sente più sperduto, in un mondo in continuo cambiamento, in un mondo che richiede sempre più tempo di lavoro, in un mondo in cui le tradizioni si perdono e la vita sociale appassisce, deve sapere che non sarà rompendo ulteriormente il tessuto che troverà le soluzioni di cui ha bisogno.
Non sarà tracciando una linea intorno a sé che potrà impedire al mondo globalizzato di travolgere l’esile barriera. Questo ha insegnato la Storia a coloro che hanno scelto la disgregazione.
Il federalismo è uno slogan, che dura fintanto che non viene realizzato. Appena realizzato ci si accorge che i problemi sono ancora lì, ma che è diventato più difficile risolverli.
Il federalismo è un passaggio intermedio per aggregare Stati, non per disgregarli.