Il 24 ottobre 2014 Renzi apre a Firenze i lavori della Leopolda. Racconta che la Leopolda del 2011 “mi ha fatto capire che questo Paese era scalabile … l’Italia poteva essere presa, rivoltata e cambiata … siamo partiti da zero, ci siamo presi il partito, siamo al governo del paese, stiamo facendo quello che volevamo, abbiamo smentito tutti”. Nonostante, come gli piaceva ripetere, i gufi. Scalabile. Una parola poco adatta a disegnare il percorso di un partito o la ricerca di futuro di un paese. Ma che certo descrive bene il “metodo Renzi” e le tappe della sua (ir)resistibile ascesa.
Prima tappa: prendere il partito. Nel novembre 2013 circa trecentomila iscritti votano su quattro candidati alla segreteria. Vince Renzi con il 45,3%, seguito da Cuperlo (39,4%), Civati (9,4%) e Pittella (5,8%). Una vittoria di misura, che non giunge nemmeno alla maggioranza assoluta dei votanti. Ma le primarie conclusive sono aperte a tutti quelli che vogliono partecipare, e non solo agli iscritti. Votano oltre 2.800.000, e Renzi vince con il 67,5 % dei voti. Cuperlo rimane al 18,21, e Civati al 14,24. I rapporti di forza emergenti dal voto degli iscritti al partito sono stravolti. Nell’assemblea nazionale Renzi ha 657 delegati, contro 194 di Cuperlo e 149 di Civati. Su questa base Renzi è segretario, e si formano gli organi dirigenti.
Così il Pd si avvia a diventare, secondo una formula che avrà qualche fortuna, PdR (Partito di Renzi). Le primarie aperte sono una forma peculiare di suicidio di partito, perché mettono da parte nelle scelte decisive i militanti con tessera, che fanno vivere il partito giorno per giorno nelle sezioni e nei circoli territoriali.
Seconda tappa: prendere il governo. Il 13 febbraio 2014 la direzione nazionale del Pd, espressione dell’assemblea di cui sopra, dà il benservito al presidente del consiglio Letta, per molti anni vicesegretario dello stesso Pd. Al quale, per di più, lo stesso Renzi il 17 gennaio 2014 aveva detto “stai sereno”. Renzi espugna Palazzo Chigi. Ha scalato il paese in due tappe, giocando tra partito e istituzioni.
Terza tappa: rivoltare l’Italia. Si fa con la “buona scuola”, il Jobs Act, la riforma costituzionale. Con la sconfitta nel referendum del 4 dicembre 2016 Renzi perde Palazzo Chigi, ed è sostituito da Gentiloni. Ma mantiene il controllo del partito, ancora attraverso le primarie. Il 30 aprile 2017 la percentuale per Renzi tra gli elettori è quasi sovrapponibile a quella tra gli iscritti. La transizione verso il PdR è andata molto avanti. Renzi si avvicina al 70%, e l’Assemblea nazionale è composta da 700 delegati per lui, 212 per Orlando, 88 per Emiliano.
Quarta tappa: la sconfitta del 2018. Da segretario, Renzi gestisce le elezioni del 4 marzo, in cui il Pd si ferma al 19% circa. È il fischio finale per Renzi segretario. Nelle primarie che seguono votano circa 190.000 iscritti, con un’affluenza del 50%. Prevale Zingaretti con il 47%, che diventa poi il 66 nel voto di circa 1.600.000 elettori il 3 marzo 2019. L’assemblea nazionale è composta da 653 delegati per Zingaretti, 228 per Martina, 119 per Giachetti.
Ultima tappa: Renzi esce dal Pd. Nelle elezioni del marzo 2018 ha costruito le candidature a sua immagine e somiglianza, approfittando di una legge elettorale (Rosatellum) che consegna in larga misura la scelta degli eletti alle oligarchie di partito. Il 18 e 19 settembre 2019 nascono i gruppi parlamentari di Italia Viva. Aggira gli ostacoli posti dal regolamento del Senato alla formazione di gruppi non presenti nella competizione elettorale prendendo in prestito il simbolo del PSI. In parlamento, ha un peso largamente superiore a quello che i sondaggi indicano nel paese. È l’onda lunga del voto, grazie alla legge elettorale. Analisti e commentatori parlano di renziani pentiti e “in sonno” anche nei gruppi Pd, non esclusi i capigruppo. Zingaretti governa il partito, molto meno i gruppi parlamentari.
Nel tormentone delle ultime settimane, Renzi ha usato la sua pattuglia di senatori come arma contro il Conte bis, che pure aveva contribuito a far nascere. Ha alzato di volta in volta l’asticella, scommettendo sulla improbabilità di uno scioglimento anticipato. Secondo una lettura, ha rotto per mantenere una visibilità che temeva di perdere rimanendo nel governo giallorosso. Ma l’opinione pubblica non ha capito la crisi. E con il tentativo di Draghi si avvia una situazione nuova, in cui Renzi potrà essere sostanzialmente irrilevante.
Renzi è il prodotto di un sistema in cui i partiti sono ormai ectoplasmi, e una leadership si può costruire a tavolino, sfruttando le regole di volta in volta applicabili e la comunicazione politica. Da questo punto di vista è l’esito ultimo di una progressiva destrutturazione, in atto fin dagli anni ’90. È questo processo che ha reso il paese “scalabile”. Renzi non sbagliava. Ma anche il voto del 2018, il premier bicolore Conte e l’incarico a Draghi vengono da quella destrutturazione. E la scala che sale è ad un tempo quella che scende.