Morire per Danzica? Così si interrogava il deputato socialista (poi convertitosi al nazismo) francese Marcel Déat in un articolo pubblicato il 4 maggio 1939 sul quotidiano l’OEuvre. L’espressione è poi passata alla storia come esempio dell’incapacità della politica di comprendere i drammi della Storia. I tempi sono cambiati ma è non è cambiata l’incapacità della politica di comprendere i drammi della nostra storia contemporanea.
In un discorso pronunciato lunedì sera alla base militare di Fort Myer, in Virginia, Donald Trump ha annunciato un aumento delle truppe americane impegnate nella guerra in Afganistan e la fine della strategia di “nation-building”, cioè del processo di ricostruzione di una struttura statale capace di assicurare la convivenza pacifica della popolazione. Calzando l’elmetto,Trump ha precisato: “Lavoreremo con gli alleati e i partner per proteggere i nostri interessi comuni”.
Ciò significa che gli Stati Uniti intendono coinvolgere gli alleati della Nato che già schierano oltre 5 mila militari in Afghanistan, tra cui l’Italia vanta il secondo contingente con oltre 900 militari. Il 7 ottobre si compiranno sedici anni dall’avvio della “guerra al terrorismo” scatenata dal Presidente americano George Bush in Afganistan. Dopo sedici anni di scontri feroci, bombardamenti, attentati, il Paese non sa cosa sia la pacificazione, mentre a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga.
Dal 2014, la situazione è peggiorata: non sono state costruite strade né infrastrutture, il sistema sanitario e la scuola non hanno più risorse. I talebani, sono giunti a controllare un territorio esteso come non mai in precedenza dopo il 2001 quando l’Operazione anglo-americana Enduring Freedom fece cadere il loro regime. Nella seconda metà del 2016 il governo afgano arrivava a controllare solo il 57% del Paese, ma questa percentuale si è ulteriormente ridotta.
Qualche ora dopo il discorso di Trump i Talebani hanno diffuso un proclama, dichiarando: “Fin quando ci sarà un solo soldato americano nel nostro Paese, l’Afghanistan sarà il cimitero di questa superpotenza nel 21° secolo” e i combattenti islamisti “continueranno con determinazione e solennità la jihad”. Insomma ci sono tutte le premesse per prevedere che la guerra infinita dell’Afganistan si riaccenderà con rinnovato vigore, senza che ci sia nessuna possibilità di vittoria in vista. Sedici anni di guerra raccontano di un immane fallimento dietro al quale si cela un prezzo, altissimo in vite umane. I soldati della Coalizione caduti sono 3529, di questi 2393 americani, e 54 italiani, e oltre 170mila militari e civili locali. L’Afghanistan è la storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli.
L’aumento di truppe non potrà che portare a un maggiore aumento di perdite umane e di costi economici. È una questione che riguarda direttamente anche l’Italia dalla quale si pretende un maggiore impegno militare in Afghanistan. In un intervista all’Huffington Post il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano ha lanciato un grido d’allarme: “L’Afghanistan così come l’Iraq c’insegnano che lo strumento militare, anche quando si rivela necessario, non deve mai sostituire una strategia politica o surrogarla, perché quando è così, si producono solo disastri – ed ha aggiunto – la decisione annunciata finirà per fornire benzina a un incendio che invece stava estinguendosi.
E’ tempo di dire basta. Il problema afghano-iracheno va risolto d’intesa con tutti i Paesi interessati e stavolta sotto la guida delle Nazioni Unite, e alla luce di una strategia di lungo termine che deve necessariamente dimostrarsi attenta ed efficace sul piano dei diritti umanitari, rinunciando a percorrere itinerari nati sull’errore politico e che nel corso di questi sedici anni hanno aggiunto errori ad errori. In Afghanistan, è bene ricordarlo, l’Italia ha pagato un alto tributo di vite umane (..) Essere alleati, sinceri e impegnati, non significa essere vassalli. A volte, dire dei “no” è prova di forza politica e non di debolezza o codardia. L’Afghanistan può essere il banco di prova”. Riusciranno i nostri gloriosi governanti a dire no a Trump e alla Nato o dovremo rassegnarci a morire per Kabul?
di Domenico Gallo pubblicato su Il Quotidiano del Sud