Il Tar Abruzzo ha sollevato una questione di costituzionalità sulle disposizioni della riforma Madia della Pubblica amministrazione recanti il passaggio del corpo forestale nell’arma dei carabinieri. Una trasformazione all’epoca fortemente osteggiata dai forestali, contrari alla militarizzazione.
Perché la riforma? Si adduceva tra le ragioni principali una maggiore efficienza operativa. È successo il contrario, e la stagione di incendi che sta devastando l’Italia lo dimostra. In una mozione presentata al Consiglio regionale toscano il 19 luglio scorso si rileva che il decreto attuativo della delega (177/2016) ha assegnato ai carabinieri 6.400 unità e ai vigili del fuoco appena 360; che 3 elicotteri antifuoco dati ai carabinieri sono stati destinati ad altro uso; che dei 17 assegnati ai vigili del fuoco solo 7 erano stati utilizzati nel mese precedente contro gli incendi; che dei 2.000 dirigenti e operatori che si occupavano delle attività anti-incendi solo 300 sono passati ai vigili del fuoco, sempre più a corto di risorse e mezzi aerei e terrestri, e nel quadro di una «diffusa confusione normativa e comportamentale».
Eppure, lo sapevamo tutti che la stagione degli incendi estivi si sarebbe ripetuta. Una riforma importante come l’assorbimento dei forestali nei carabinieri poteva e doveva cercare sul campo la propria consacrazione. Al contrario, dimostra come non si fanno le riforme.
La stessa legge Madia è stata già fulminata dalla Corte costituzionale (251/2015) nel punto nodale di aver previsto un mero parere – e non l’intesa – per interventi nelle materie di competenza concorrente o residuale delle regioni. Alle accuse di incompetenza nella scrittura della legge la ministra rispose che la Corte aveva cambiato giurisprudenza, cogliendo gli uffici di sorpresa. Peccato che non fosse affatto vero. Il principio di leale collaborazione, dal quale l’intesa necessaria direttamente discende, è da tempo radicato nella giurisprudenza. Quindi, niente sorpresa. Bastava leggere.
Possiamo anche dire che il problema, prima che dalla riforma, veniva in buona parte dalla riforma costituzionale sbilenca e sciagurata del titolo V fatta nel 2001. Ma rimane il fatto che le riforme si fanno con la Costituzione che c’è. Ce lo insegna l’Italicum, scritto anticipando una modifica della Costituzione poi respinta dal popolo sovrano, e ora causa di forti turbolenze politiche.
Più in generale, la legge Madia indica un riformatore sciatto e approssimativo, incapace di valutare l’impatto del cambiamento che si va a introdurre, di ascoltare i pareri tecnici e ancor meno i mondi di riferimento toccati dalla riforma. Non è affatto un caso isolato. Possiamo forse dimenticare la riforma delle province e delle aree metropolitane? Nessuno sa bene in Italia chi si occupa delle strade e delle scuole già di competenza provinciale, e le città metropolitane sono ectoplasmi istituzionali. E che dire del Jobs act, e del connesso crollo dei rapporti a tempo indeterminato al venir meno degli incentivi? E i voucher, con il truffaldino scippo di referendum? E la buona scuola, che non ha risolto nessuno dei problemi antichi, e ne ha aggiunti parecchi di nuovi? L’Italia dei governicchi ha fatto riforme epocali. L’Italia dei premi e delle maggioranze blindate non riesce a scrivere un testo legislativo decente.
Ora il Tar Abruzzo adduce, secondo le notizie di stampa, la violazione degli articoli 2, 4, 76 e 77 della Costituzione (diritto al lavoro, limiti della delega legislativa). Non sono, a prima vista, argomenti fortissimi. Per la delega, da tempo ormai ne vediamo sostanzialmente in bianco: molte parole, pochi limiti effettivi. Quanto al diritto al lavoro, la soppressione di un segmento di organizzazione pubblica e la conseguente perdita di posti di lavoro non trova di per sé ostacoli costituzionalmente insuperabili. Può forse trovarli una trasformazione? A quanto si intende, il Tar trova rilevante che non di una qualunque trasformazione si tratti, ma del passaggio da una organizzazione civile a una militare.
Vedremo meglio leggendo l’ordinanza del Tar. Intanto si conferma che il solipsismo del riformatore si traduce in malgoverno. Del resto, è ovvio che non basti occupare la poltrona. Ci vuole anche intelligenza.
Massimo Villone su Il Manifesto del 18 agosto 2017