Nella tradizionale conferenza di ferragosto il Ministro dell’Interno ha fatto il punto sulla situazione degli sbarchi, annunciando che il problema della pressione migratoria sul nostro paese certamente non si è risolto ma, grazie agli ultimi provvedimenti, adesso si vede la luce al fondo del tunnel. Probabilmente la luce cui fa riferimento il Ministro è l’obiettivo “sbarchi zero” che i suoi competitori politici, sul fronte della Lega e su quello dei 5 Stelle, agitano come un traguardo fondamentale da raggiungere per il benessere del nostro paese. Indubbiamente la comunicazione del Ministro è stata caratterizzata da sobrietà e modestia, perché la diminuzione degli sbarchi del 4,5% su base annua, non è un dato significativo dal momento che nei primi 15 giorni di agosto si è verificato un vero e proprio crollo degli arrivi, che sono passati da 6.564 (2016) a 1.572. Il merito non è del tanto discusso “codice Minniti”, un provvedimento che ostacola ma non impedisce l’azione di soccorso in alto mare compiuta dalle navi delle ONG. In realtà il governo italiano non avrebbe potuto interdire il soccorso in alto mare, né lo sbarco nei porti italiani dei profughi salvati dal naufragio, né le conseguenti richieste di protezione internazionale, per una serie di impicci legati alle convenzioni internazionali sui diritti umani e sul diritto del mare.
Però quello che noi non possiamo fare perché ce lo impedisce il diritto e la morale, possono sempre farlo gli altri.
La vera svolta sul fronte del “governo dei flussi”, non è il tanto osannato e glorificato dall’Unione Europea codice di condotta imposto alle ONG, ma il risveglio della Libia che, solo qualche giorno dopo il varo del codice Minniti, si è appropriata di un pezzo di mediterraneo, istituendo una zona SAR che si estende fino a 180 km dalle sue coste, ed attribuendo alla sua Marina la responsabilità per le operazione di Ricerca e soccorso. La c.d. Marina militare libica ha subito interpretato questo ruolo, interdicendo, con la minaccia delle armi, le operazioni di soccorso alle navi delle ONG. E’ anche intervenuta per “salvare” i profughi sui gommoni, catturandoli e riportandoli nei centri di detenzione in Libia, dove notoriamente sono esposti a violenze e brutalità di ogni tipo, rendendo – fra l’altro – impossibile l’esercizio del diritto d’asilo a coloro che fuggono da guerre, persecuzioni e genocidi (come nel caso dei siriani). Del resto l’attitudine al salvataggio della Marina libica è ben nota e viene descritta nell’ultimo rapporto di Amnesty International (6 luglio): “ Le motovedette libiche aprono il fuoco contro altre imbarcazioni e, secondo le Nazioni Unite, sono state “direttamente coinvolte, con l’impiego di armi da fuoco, nell’affondamento di imbarcazioni con migranti a bordo”. Nello stesso rapporto si cita la nota ufficiale di John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa, che ha dichiarato: “Invece di agire per salvare vite e fornire protezione, i ministri degli Esteri europei stanno vergognosamente dando priorità a irresponsabili accordi con la Libia nel disperato tentativo d’impedire a migranti e rifugiati di raggiungere l’Italia“.
Su istigazione dell’Europa, alla fine gli accordi con la Libia li ha fatti il governo italiano, inviando una nave officina a Tripoli per riparare le motovedette che l’Italia stessa aveva fornito alla Libia, ai tempi di Gheddafi, e metterle in condizione di effettuare le operazioni concordate per scacciare le navi delle ONG e bloccare il flusso dei migranti.
Insomma il capolavoro delle politica italiana sull’immigrazione è stato di delegare il lavoro sporco ai libici. L’Italia e l’Europa sono i mandanti, la marina libica il braccio operativo.
Nel diritto penale il mandante si considera responsabile del delitto quanto l’esecutore. In questo caso il diritto e la morale coincidono.
Domenico Gallo (edito dal Quotidiano del Sud)