La Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, compie 70 anni. È giovane? Assolutamente sì. Tale è perché la sua tavola di valori – eguaglianza, diritti, solidarietà – reca le risposte oggi giuste e necessarie in un paese come l’Italia, in cui le diseguaglianze aumentano.
Milioni di persone sono sotto la soglia di povertà, diritti essenziali come quello alla salute o all’istruzione sono resi evanescenti, la speranza di un lavoro sicuro e di una vita serena e dignitosa per sé e i propri cari è un lusso inaccessibile per tanti, e soprattutto per i giovani.
In ogni caso, la Costituzione è stata spesso “ammodernata”, con l’art. 138. Solo negli ultimi 20 anni abbiamo le leggi costituzionali 1/1999 e 2/2001 (elezione diretta dei governatori); 2/1999 (giusto processo); 1/2001 (circoscrizione estero); 3/2001 (riforma del titolo V); 1/2003 (pari opportunità); 1/2007 (abolizione della pena di morte); 1/2012 (pareggio di bilancio). Alcune riforme sono nel merito discutibili, come il nuovo Titolo V, o addirittura censurabili, come il pareggio di bilancio necessario. Ma qui rileva che l’innovazione è stata possibile.
Sono invece fallite le “grandi” riforme, quelle soi-disant epocali. Accade con le speciali commissioni bicamerali (Bozzi, 1983; De Mita-Iotti, 1993; D’Alema, 1997; le ultime due istituite con leggi costituzionali). Accade anche con le “grandi” riforme perseguite con l’ordinario procedimento di revisione ex art. 138: nel 2005, la Berlusconi-Bossi, e nel 2016, la Renzi-Boschi. Approvate in Parlamento con la sola maggioranza assoluta in seconda deliberazione, sono respinte dal voto popolare nel successivo referendum.
Proprio nelle riforme 2005 e 2016 troviamo l’attacco alla Costituzione. Sono accomunate soprattutto da due tratti: vedono una contrapposizione frontale tra maggioranza e opposizione, e nel merito concentrano il potere sull’esecutivo e sul suo leader, comprimendo il ruolo delle assemblee elettive (in specie quella 2016, con il pendant dell’Italicum). La governabilità schiaccia la rappresentatività, in una versione edulcorata, moderna e ossequiente – solo nella forma – ai canoni della democrazia del «credere, obbedire, combattere». Ma che ne è dell’antico principio per cui la Costituzione si modifica con un consenso ampio, al di là dei confini di una maggioranza di governo?
Accade che nel 1992 si avvia Tangentopoli, che disarticola i partiti storici. Nel 1993 si svolta verso il maggioritario, con l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia (l. 81/1993), e, a seguito di un referendum, con il Mattarellum (l. 276 e 277/1993). Le elezioni 1994 aprono Palazzo Chigi a partiti non partecipi della nascita della Costituzione, o i cui antenati erano stati addirittura ad essa antagonisti (Forza Italia, Lega, An). Si dissolve il cosiddetto arco costituzionale, composto dalle forze politiche partecipi in assemblea costituente del patto costituzionale, e convenzionalmente unite nell’intesa che tutti gli originari contraenti dovessero concorrere alle modifiche della Costituzione.
Il nuovo contesto, unitamente alla distorsione di rappresentatività e al vantaggio in seggi dato dal maggioritario, di collegio o da premio, apre la via alle Costituzioni “di maggioranza”. Superando il quorum minimo della maggioranza assoluta in seconda deliberazione previsto dall’art. 138, maggioranza di governo e maggioranza per la revisione possono coincidere. Già con l’adozione del Mattarellum, da più parti era stata chiesta la messa in sicurezza della Costituzione, con l’innalzamento di quel quorum. Non è stato fatto. Da questo punto di vista, le Costituzioni “di maggioranza” sono figlie del maggioritario, e l’unico vero tutore della Costituzione rimane il popolo sovrano nel voto referendario. Come è accaduto.
Siamo ancora a rischio? Certamente sì. Anche il Rosatellum produce una distorsione maggioritaria. I partiti sono tuttora evanescenti. Le forze che spingono per la normalizzazione di paesi affetti da eccessi di democrazia sono sempre in campo, e il famigerato documento J.P.Morgan sulle Costituzioni socialisteggianti esiste davvero. Come è vivo il mantra della governabilità, che certo sentiremo prima e dopo un voto che non darà un vincitore nell’immediato. Nel merito, qualche scontro già si avvia, come per la proposta di una flat tax, che potrebbe solo allargare ancora l’enorme fossato tra chi ha e chi non ha. E chi può negare sia giovane la Costituzione che subito ci offre con l’art. 53 e il principio di progressività l’arma per contrastare gli epigoni di Trump?
Attuare, non stravolgere. Credere nella Costituzione è una fede laica, che non espone icone e santi, ma beni terreni, come libertà, diritti, eguaglianza, qualità di vita. Come ogni fede, chiede a tutti di schierarsi per ciò in cui si crede. E questo dobbiamo alla Costituzione per il suo settantesimo compleanno: l’impegno di donne e uomini che si battono ogni giorno perché vivano e si inverino le promesse dell’antico patto costituente.
Massimo su Villone Il Manifesto, 29 dicembre 2017