Per una volta, sappiamo la sera del voto chi ha vinto in Lombardia e Veneto: la Lega. Ha voluto i referendum, ne ha dettato le parole d’ordine, ha definito l’orizzonte politico entro il quale si collocano.
Ora, sulle cose da chiedere ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione c’è una babele di lingue. Per Zaia uno statuto speciale e il 90% delle tasse trattenuto in Veneto. Una proposta che forse non è tecnicamente secessionista, ma realizza l’identico effetto di separare la regione dal resto del paese. Per andare dove? Più moderato Maroni: niente statuto speciale, e circa il 50% delle tasse. Poi, entrano nella trattativa le 23 materie di competenza concorrente (articolo 117, comma 3). Nel tempo che corre tra oggi e l’avvio della trattativa si metteranno a fuoco le cose che interessano davvero.
In ogni caso, la questione di fondo è nel balletto delle percentuali sul cosiddetto “residuo fiscale”: la differenza tra i tributi riscossi in un territorio e trasferiti al centro e le risorse restituite dal centro a quel territorio. In misura diversa, sia Maroni (50%) che Zaia (90%) vogliono riappropriarsene. La cosa era stata mantenuta sottotono nella campagna referendaria, forse per non generare reazioni che avrebbero bollato il referendum come bottegaio e sostanzialmente secessionista. Ma – com’era prevedibile – subito dopo il voto è riemersa con forza.
In qualunque stato unitario un residuo fiscale è fisiologico, e dà il margine per politiche nazionali, di solidarietà, di riequilibrio in chiave di eguaglianza. Proprio a queste politiche si tolgono risorse riducendo o azzerando il residuo fiscale. Aggiungiamo che la misura del residuo dipende dall’architettura del sistema tributario: chi paga le tasse su che cosa, e dove. Quindi le cifre vanno verificate con attenzione. Ma quel che importa è che la Lega in Lombardia e Veneto ha un progetto preciso, fondato su più competenze e più risorse alla regione. Di certo, sarà un tema della prossima campagna elettorale. E se dovesse prevalere il centrodestra, sarà anche un punto centrale dell’indirizzo di governo, essendo probabilmente la golden share dell’esecutivo in mano leghista. Il referendum è stato una prova generale.
Meraviglia allora che gli altri partiti si siano semplicemente accodati, tacendo o dicendo un sì a mezza bocca.
Soprattutto meraviglia che l’abbia fatto il Pd, che pure vorrebbe candidarsi a guidare il paese. Non basta ora proclamare che sul sistema fiscale non si tratta.
Quel che manca è un progetto di forza uguale e contraria a quello leghista, che colpisce i fondamenti dalla solidarietà territoriale e della coesione sociale. Il progetto leghista non si batte solo sedendosi allo stesso tavolo con chi se ne fa portatore.
Emiliano dice che vuole esserci. Berlusconi vorrebbe che tutte le regioni chiedessero maggiore autonomia. Ma per cosa, e soprattutto per porre quali argini al depauperamento di regioni già ora più povere? Meraviglia ancor più che in Parlamento il Pd si arrocchi su una legge elettorale che – nell’analisi di tutti – favorisce la Lega, e può solo peggiorare il quadro politico-istituzionale della prossima legislatura. In realtà, qualunque sistema uninominale maggioritario di collegio favorisce i soggetti politici territorialmente concentrati. Il Mattarellum ha sostenuto la crescita della Lega, esaltandone il peso nel Nord. E si capisce molto bene perché Salvini abbia sempre strizzato l’occhio al ritorno del Mattarellum. Nel 1996 il centrosinistra prevalse solo perché Lega e FI correvano separatamente, e questo permise di conquistare molti collegi nel Nord. Nel 2001 il centrodestra unito stravinse. Mentre dal 1994 – prime elezioni con il Mattarellum – alla questione meridionale si sostituisce quella settentrionale.
Con il Rosatellum bis il Pd rischia nel Nord di essere ridotto alla sola quota proporzionale e poco altro. Perché il Pd lo sostiene a spada tratta, e pretende addirittura che il governo metta la fiducia?
Forse, si spiega con la fretta di Renzi di arrivare allo scioglimento delle Camere il prima possibile, liberandosi di Gentiloni, ingombrante perché troppo gradito alla pubblica opinione. Renzi si è tenuto lontano dalla campagna referendaria, girando il paese su una carrozza ferroviaria in cerca di un consenso popolare che – a quanto si dice – non ha trovato. Ora, si limita a riciclare il logoro slogan di abbassare le tasse. Senza minimamente affrontare le questioni ben più complesse che emergono dal voto nel lombardo-veneto.
Massimo Villone su Repubblica Napoli del 26 ottobre 2017