L’insofferenza della destra per le regole si traduce in sistematica aggressione dei giudici: che siano autori di di decisioni sgradite o che abbiano espresso critiche al Governo.

«Elon Musk ha ragione, toghe rosse andatevene». È il testo di uno striscione esposto nella notte tra il 19 e il 20 novembre di fronte ai tribunali di Firenze, Prato, Lucca e Pistoia. Sono note le reazioni furiose seguite ai provvedimenti della magistratura che non hanno convalidato il ricorso alla procedura accelerata di frontiera adottata nei confronti di alcuni richiedenti asilo, provenienti da paesi strumentalmente dichiarati sicuri, facendo naufragare nel ridicolo il cosiddetto modello Albania, di cui questo Governo ha menato gran vanto. A ben vedere l’aggressione politica e mediatica nei confronti dei giudici esprime l’insofferenza di questo potere politico nei confronti del controllo di legalità e ne smaschera la pulsione autoritaria. Quanto sia profonda quest’insofferenza ce lo dimostra il fatto che adesso si scatena la piazza contro i Tribunali.

Come ha osservato l’Associazione Nazionale Magistrati in un documento approvato all’unanimità il 17 novembre : «Nell’ultimo periodo abbiamo assistito da parte di una certa politica ad attacchi sempre più frequenti a provvedimenti resi da magistrati italiani nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali, criticati non per il loro contenuto tecnico giuridico ma perché sgraditi all’indirizzo politico della maggioranza governativa […]. Si tratta – prosegue il documento – di un attacco alla giurisdizione strumentale a screditare la magistratura per preparare il terreno a riforme che tendono ad assoggettare alla politica il controllo di legalità, affidato dalla Costituzione alla magistratura». Come ha rilevato l’Anm, i provvedimenti delle Sezioni per l’immigrazione non sono stati criticati sotto il profilo tecnico-giuridico ma perché ritenuti “oppositivi” nei confronti delle scelte politiche di Governo. Di conseguenza i giudici che li hanno emessi sono stati delegittimati nell’esercizio della loro funzione pubblica con l’accusa di partigianeria.

Se l’aggressione contro i giudici del Tribunale di Roma e Bologna è una reazione irritata per provvedimenti giurisdizionali sgraditi, che hanno dato torto al Ministero dell’interno, l’intimidazione nei confronti della magistratura non si ferma qui. Molto più grave è l’aggressione portata nei confronti del procuratore della Repubblica aggiunto di Reggio Calabria, Stefano Musolino, segretario di Magistratura Democratica. Due Consigliere laiche del Csm, Isabella Bertolini (FI) e Claudia Eccher (Lega), hanno presentato un esposto, chiedendo l’apertura di una pratica per il trasferimento d’ufficio, muovendo a Musolino l’accusa di aver partecipato a un dibattito «avente una spiccata connotazione antigovernativa» con affermazioni «di contenuto politico». L’esposto è stato inviato anche alla Procura Generale della Cassazione sollecitando l’avvio di un procedimento disciplinare a carico del magistrato, reo di aver criticato, in un dibattito pubblico, il disegno di legge sicurezza.

Il fatto che un tale esposto non abbia alcun fondamento giuridico e sia destinato ad essere cestinato non rende, per questo, l’iniziativa meno insidiosa. Dal punto di vista politico si tratta di una arrogante pretesa di “obbedienza” al governo rivolta al corpo dei magistrati, impedendo loro ogni forma di dissenso. In passato questa aspirazione a mettere in riga i magistrati aveva trovato compiuta realizzazione con la legge 24 dicembre 1925 n. 2300, che consentiva al Governo di dispensare dal servizio quei funzionari pubblici che: «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio non diano piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si pongono in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». A ben vedere si tratta delle stesse censure sollevate da Bertolini ed Eccher nei confronti di Musolino. Sennonché quelle censure sono cadute insieme al regime politico che le aveva generate.

Una delle prime conseguenze della caduta del regime fascista fu la revoca del bavaglio imposto ai magistrati. Con la circolare 6 giugno 1944, n. 285, il liberale Arangio Ruiz, Ministro di grazia e giustizia, restituì ai magistrati il diritto di esprimersi liberamente e di partecipare alla vita politica: «ho deciso di rimuovere il divieto che impediva al personale della magistratura e degli uffici giudiziari la pubblica professione della fede politica di ciascuno. Persuaso che nella presente situazione dell’Italia e nella perdurante necessità di difendere la libertà riconquistata, dopo così dure prove, la partecipazione alla vita politica sia un dovere civico, penso che sarebbe per i funzionari dell’ordine giudiziario un privilegio odioso il contrastare loro l’adempimento di questo dovere, limitando “a priori” nei loro riguardi l’esercizio dei diritti politici al semplice atto del dare il proprio voto nelle elezioni». La direttiva di Arangio Ruiz, fu confermata, l’anno successivo, dal Guardasigilli comunista Palmiro Togliatti che, con la circolare del 18 agosto 1945, ribadì la libertà dei magistrati di partecipare alla vita politica. Adesso quel ciclo, apertosi con il ritorno alla democrazia liberale, rischia di chiudersi sotto le raffiche di vento di coloro che vogliono riscrivere la Storia.

Non basta. Insoddisfatto delle decisioni dei tribunali in tema di migranti e incerto sull’efficacia persuasiva di intimidazioni e minacce, il Governo e la maggioranza, in attesa di poter rimuovere i giudici sgraditi, si apprestano a modificare la competenza in materia, attribuendola alle Corti d’appello. Volte mai che, a forza di cercarli, si trovino dei giudici ossequienti ai desiderata del Governo più che ai vincoli delle norme e delle regole…

Ritornano di attualità le parole di Fabrizio d’Andrè: «Ascolta / una volta un giudice come me / giudicò chi gli aveva dettato la legge: / prima cambiarono il giudice / e subito dopo / la legge».