L’ondata nera non si è verificata in modo così travolgente, come si temeva alla vigilia del voto europeo – con la successiva non trascurabile eccezione dell’Austria – ma è soprattutto vero che il condizionamento delle destre sulle politiche europee e nazionali è enormemente cresciuto.
Il crollo dei partiti di governo in Francia e in Germania ha messo in crisi l’asse franco-tedesco su cui poggiava l’Ue fin dal suo sorgere. Questo si è incurvato, se non spostato, verso i paesi dell’Est e quelli appartenenti all’ex campo sovietico. Gli effetti si sono fatti subito sentire nella stessa composizione della Commissione Von der Leyen. O si vedono nell’ultima deliberazione assunta dal Parlamento europeo che costituisce di fatto una dichiarazione di guerra alla Russia, concedendo all’Ucraina armi che per la loro complessità tecnologica solo esperti occidentali possono azionare. Non siamo ancora agli scarponi sul terreno, ma ai posti di comando dei sistemi d’arma sì.
Il piano Draghi – e con minore incidenza quello di Enrico Letta – cui la Ue pare affidarsi punta su una finanziarizzazione il cui esito è la sempre più massiccia penetrazione delle grandi società di investimento Usa (“The Big Three”, cioè BlackRock, Vanguard e State Street) nella finanza europea e italiana. Lo dimostra, ad esempio, la consistente presenza di Black Rock in Unicredit e Commerzbank – la banca tedesca che gli italiani vogliono scalare – o l’incontro a palazzo Chigi tra la Meloni e Larry Fink, Ceo di BlackRock, interessato al nuovo piano di privatizzazioni del governo ma ovviamente solo ai pochi bocconi prelibati che sono rimasti in mano pubblica, quali ad esempio Poste italiane.
Se la proposta di debito comune europeo è in astratto migliore di quelle avanzate da coloro che vi si oppongono, il modo con cui è concepita e la finalizzazione che viene avanzata da Mario Draghi sono disastrosi, poiché, essendo finito l’acquisto da parte della Bce del debito dei singoli Stati, questi dovranno rinverdire la vecchia austerità contraendo la spesa pubblica, e soprattutto perché gli investimenti saranno indirizzati verso la spesa militare o verso l’innovazione tecnologica ‘dual use’, rispondendo precisamente agli incitamenti statunitensi ad aumentare l’impegno in questo mortale settore.
La pressione sulla Ue e sui singoli governi nazionali per un cessate il fuoco in Ucraina e in Medio Oriente deve quindi intensificarsi: va bloccato l’invio di armamenti, va avanzata la richiesta, nel primo caso, di una conferenza internazionale sul modello di quella di Helsinki del 1975, per garantire sicurezza ad entrambi i contendenti, Russia e Ucraina, nel quadro di una pace realistica – demistificando l’ipocrisia della cosiddetta ‘pace giusta’ – e smentendo le offerte di Marc Rutte su un ingresso imminente dell’Ucraina nella Nato, anzi postulando la necessità di un superamento di quest’ultima, le cui “ragioni” storiche di esistenza, una volta sciolto il Patto di Varsavia, sono da tempo svanite.
Nel secondo caso, puntando ad una immediata tregua sul fronte di Gaza e oggi anche del Libano, per riproporre una trattativa sulla base almeno delle risoluzioni Onu, che Netanyahu definisce una “palude antisemita”, per garantire uno Stato palestinese e l’integrità territoriale del Libano, nonché la fine dell’esplicito disegno del primo ministro israeliano di porsi come liberatore del popolo iraniano.
Se dobbiamo con tenacia percorrere queste vie per la pace, dobbiamo sapere che la forza per ottenerle non deriva tanto dai governi o dagli organi sovranazionali, quanto dalla ricostruzione di un ampio, variegato, ma sostanzialmente unito popolo della pace. Quello che caratterizzò l’inizio degli anni duemila, pure non riuscendo ad evitare la sciagurata guerra in Iraq.
Guardiamo a quanto è successo in Francia. Ora siamo di fronte a un colpo di stato bianco da parte di Macron, ma questo avviene perché è stato il Nuovo Fronte Popolare a fermare le destre della Le Pen. E questo non deriva solo dalla capacità delle sinistre in quel paese di definire un programma e una linea di comportamento comuni, ma dal fatto che da molti mesi a questa parte in Francia sono entrati in scena movimenti sociali che, pur con tutte le loro contraddizioni, hanno arato il terreno per una sconfitta del macronismo e perché questa non si risolvesse in una vittoria della destra.