Dall’alluvione alle guerre, dalla complessità di Edgard Morin all’assenza di pensiero di Salvini: riflessioni di fine estate

di Maria Paola Patuelli – 24 Settembre 2024

Mentre stavo rileggendo questa mia riflessione di fine estate, mi arriva la notizia del Lamone, che ha “rotto” a Traversara, a pochi chilometri da ove mi trovavo, dopo piogge sicuramente abbondanti, ma che non avevo collegato al disastro di poco più di un anno fa, che mise a durissima prova la nostra terra, e la mia casa. Arriva, all’alba, un consiglio di amici già informati. Torna velocemente a Ravenna, mi dicono. Fuggo, con poche cose. Sempre in allarme, nelle ore buie che seguono, per le notizie disastrose che seguo minuto per minuto. L’acqua sta arrivando anche a casa tua.

 È arrivata? Non ancora, ma si sta avvicinando. Nella notte è arrivata. Grande tragedia per molte persone, che di nuovo hanno perso tutto. Grave danno anche per me. Il geometra che stava seguendo la pratica dei rimborsi a me dovuti per i grandi danni dello scorso anno, dovrà aggiungere anche la pratica di quest’anno. La piattaforma Sfinge, mi dice il geometra, fra l’altro persona molto competente, è “indecifrabile”. E d’accordo con lui sono tutti i colleghi e gli architetti con cui collabora. Ci sta facendo impazzire. Credo che, volutamente – chi? -, coloro che l’hanno così denominata, abbiano voluto cinicamente avvertire delle sofferenze di chi a lei si accosta, onorando l’antica leggenda egiziana.

“La Sfinge avrebbe posto un enigma a tutti coloro che cercavano di passare vicino a lei. Chiunque non fosse riuscito a risolvere l’enigma sarebbe stato ucciso dalla Sfinge”. Questo racconta la leggenda egiziana. I nostri geometri stanno resistendo all’idea di soccombere, forti del loro mestiere, ma assai critici per una delle più recenti performance della nostra crudele burocrazia. Non tocco in questo momento il tema dell’uso politico di questa tragedia, che sta dilagando, altra avvelenata alluvione. Non sarei in grado di mantenere lo stile del politicamente corretto.

Faticosamente rientro nella riflessione di fine estate. Voci autorevoli da tempo, e sempre più, dicono e ripetono. Senza conoscenza del passato è impossibile comprendere il presente. Non ho convinzioni storiciste, alla Hegel, alla Croce, ma condivido del tutto questa ripetuta affermazione, quasi una supplica. Studiate, guardatevi non solo attorno, anche indietro. Altrimenti sarete miopi come talpe. Ma una volta condivisa questa “verità”, sono in notevole difficoltà nel vivere il nostro tempo, che vediamo dibattersi senza, per ora, via di uscita, fra ignoranza del passato, riscrittura a fini contingenti della storia, cancellazione e damnatio di ciò che nel passato non ci piace.

In questa brutta estate, che ha reso difficile anche respirare, e che ha visto guerre infinite, e morti di cui si è perso il conto, mentre di tutto questo mi rattristavo, ho per caso ritrovato un saggio scritto nella primavera del 2022 da Edgar Morin (nella foto sotto) poche settimane dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Una analisi illuminante, di densità storica straordinaria, ma raccontata con la linearità e la chiarezza che rendono il suo scrivere “unico”. Morin ha 103 anni. Ne ha visto di mondo, di storia. Ebreo, nato a Parigi nel 1921, di nome Edgar Nahoum. Vita intensa di un intellettuale dal sapere sterminato – filosofia, psicologia, sociologia, e tanto altro ancora – e dalla vita molto attiva. Impegnato nella Resistenza al nazismo, nome di battaglia Morin. Diventerà il suo cognome per sempre. Comunista in gioventù, non regge lo stalinismo. Ma non butta via il bambino con l’acqua sporca. Butta lo sporco e tiene il bambino, l’ispirazione socialista.

Come leggete la realtà? Ci chiede Morin. Se non sapete riconoscere la complessità del mondo, della realtà, avrete di fronte solo piccoli pezzi fra loro sconnessi. Non un libro da leggere, ma un puzzle ingannevole perché irrisolvibile. E, per darci una mano per comprendere “il rosso e il nero” della Russia di oggi, ne ripercorre la storia, dalla grande madre Russia, alla alleanza fra Zar e Chiesa ortodossa – Machiavelli docet – alla straordinaria somiglianza fra Zar e Stalin e le loro guerre patriottiche vinte. Deve stupirci se un grande Impero, dissolto, cerca poi di ricostruirsi? Noi ravennati, che abbiamo il meraviglioso mosaico giustinianeo, dovremmo sapere che Giustiniano, oltre ad raccogliere le leggi romane nel Corpus Iuris Civilis – vivo fino al Codice Napoleonico, di lunghissima durata, quindi – cercò di ricomporre anche altro, niente meno che l’Impero Romano, con la Renovatio Imperii. Ma lo sappiamo, lo ricordiamo, ne comprendiamo il senso’? Giustiniano non ci riuscì. Putin?

Morin arriva così al presente. E dice quello che papa Francesco disse fin dall’inizio. C’è stata tanta imprudenza dovuta ad ignoranza di quanto la realtà sia complessa. Le pagine di Morin mi hanno fatto riflettere su un dato storico a me noto, ma sul quale non mi ero soffermata in modo adeguato. In sintesi. Piccoli Stati europei, nel passato, hanno cercato di costruire grandiosi imperi impossessandosi di terre lontane. Con successo, per un lungo periodo. In realtà, per un periodo assai breve, per i tempi della storia. La seconda guerra mondiale ha messo fine, seppur lentamente – India, Vietnam, Mozambico, Senegal, Algeria, e non solo – agli imperi lontani. La Russia, nei secoli, ha annesso terre contigue. Morin dà molta importanza a questo dato storico. Il mondo, un tempo dominato dalle potenze “civilizzatrici”, detesta l’Occidente, come Arnold Toynbee ci spiegò in anni lontani, per la sua “invasività civilizzatrice” e di dominio.

Il mondo non europeo non detesta la Russia e la Cina. La Russia è detestata dai paesi da lei dominati dopo la seconda guerra mondiale, vicini di casa alla Russia, ma sul versante europeo ad Ovest, assegnati all’URSS, nella divisione del mondo che uscì diviso e congelato dalla guerra fredda. È detestata da chi ne ha assaggiato il dominio. Paesi come la Boemia, o, prima del fascismo, l’Ungheria, che avevano avuto esperienza di istituzioni parlamentari democraticamente – più o meno – elette, presero male la dominazione sovietica. Putin non ambisce a queste, ma a quello che un tempo era parte, più o meno direttamente, dell’Impero, prima zarista e poi sovietico. Morin ci invita a considerare tutto questo per orientarci nel tragico caos ucraino. Quindi, conclude, è necessario fare i conti con la storia, che è, per definizione, complessità. Complessità, parola ignorata o derisa, in questo tempo di semplificazione, di banalizzazione, di fretta spesso menzognera. Se – ci dice Toynbee – le civiltà continuano a vivere se sanno trasformarsi, mi chiedo. Avranno più lunga vita le dittature o le nostre democrazie?

E Israele e Palestina? Altra tragedia, enorme. Da avvicinare – è doveroso – con le stesso metodo indicato da Morin. L’ultima diaspora ebraica fu causata, sul finire del primo secolo della nostra era, dalla esuberanza del grande Impero che partendo dal cuore dell’Europa, Roma, si espandeva, con forti appetiti, materiali e simbolici. La dominazione romana non piacque al popolo ebraico. La ribellione, in più fasi, fu duramente repressa. Ebrei esiliati, schiavizzati, fuggiti. Dove? In Europa. L’Europa, diventata poi cristiana, li disprezzò e ghettizzò. Erano stati deicidi, sorvolando che qualcuno se ne era lavato le mani. Agli ebrei andò meglio dove arrivò, poi, la dominazione musulmana, come in Spagna, che vide una buona convivenza fra musulmani, ebrei, cristiani. Quando i pogrom (nell’immagine in basso) e le persecuzioni, intensificate nell’Europa orientale, dal secondo Ottocento in avanti, si fecero insopportabili, compare la nostalgia per il monte Sion. Ha inizio la diaspora al contrario. Focolari ebraici, convivenza con gli arabi in Palestina. E così fu, per alcuni decenni. Di nuovo una guerra, la prima mondiale. Dal monte Sion, al sionismo.

La grande malattia dell’Europa moderna, il nazionalismo, pervade anche il sentire di molte comunità ebraiche europee, seguaci di Herzl. Anche noi, popolo ebraico, dobbiamo avere una nostra terra, la nostra Nazione. Progetto che Herzl concepì dopo avere seguito – lui giornalista ebreo viennese – il processo a Dreyfus, un capitolo feroce di antisemitismo, in Francia, la patria della fraternità, dove la Rivoluzione del 1789 aveva dato agli ebrei pieni diritti. Una delle prime prove di come leggi e Costituzioni, nate in contesti storici favorevoli, si incrinano e vengono disattese in contesti storici sfavorevoli. Noi, in Italia, da decenni ne siamo la prova. Anzi, in questi giorni, stiamo vivendo l’ennesimo capitolo di aggressione all’unità della Repubblica, solennemente affermata nella Costituzione del 1948.

Per dare corpo al sionismo ci volle una guerra, la prima mondiale. Il 1917 non fu solo l’anno della seconda grande rivoluzione europea. Nello stesso anno il ministro Arthur Balfour, cioè l’Inghilterra, per coalizzare popoli arabi contro la Turchia, fece il gioco delle due carte. Alleanza con gli arabi – indimenticabile il film Lawrence d’Arabia, con un Peter O’Toole da sogno – e sostegno ai focolari ebraici in Palestina, creando il grande equivoco. Ebrei e palestinesi futuri cittadini con eguali diritti e doveri? O Palestina di ebrei, cittadini di serie A, e di arabi, cittadini di serie B? La longa manus inglese era esperta di colonialismo, ma in questo caso molto miope. Per esempio, non si accorse che Gandhi si era messo in cammino. E che giocare a carte può rivelarsi un gioco pericoloso.

Quando si arrivò al dunque, dopo la seconda guerra mondiale, dopo Auschwitz con tutto quello che questo significa, l’ambiguo contesto esplose. I sionisti forti – si fa per dire – dell’immensa tragedia che li aveva segnati, chiedono che il gioco si concluda. In realtà, l’immensa tragedia aveva sì travolto milioni di persone, la cui colpa era solo quella di essere nate – efficace espressione di Liliana Segre – ma aveva portato nella nostra storia un nodo inestricabile, oltre che tragico. Gli ebrei – Etnia? Religione? Cultura? – erano, nel corso dei secoli, diventati francesi, inglesi, italiani, tedeschi. Liliana è italiana. Gli ebrei francesi combatterono nell’esercito francese contro l’esercito tedesco, nella prima guerra mondiale. Gli ebrei tedeschi, altrettanto, contro l’esercito francese. Auschwitz li rese Nazione? Sangue? In Europa, meticciato ovunque. Religione? La mia carissima amica ebrea Elena Ottolenghi, da poco scomparsa, era atea. E, dalla sera alla mattina, come la Segre, si trovò espulsa dalla scuola. Era italiana.

Molti ebrei che, a mio avviso, avrebbero potuto avere un certo e fondato sospetto nei confronti della “Nazione”, caddero nella trappola del nazionalismo. E l’Occidente, accecato da sensi di colpa, riprese e concluse il gioco delle carte. Ma, al tavolo, gli arabi di Palestina non sedevano e altri disposero della loro terra. Un’ebrea, Hannah Arendt, fuggita dalla Germania nel 1933, dopo la fine della guerra chiese ai suoi amici ebrei di non cadere nella trappola del nazionalismo, di non fare di Israele uno Stato su base etnica. Di mantenere la Palestina quello che di fatto era: uno Stato multietnico, dove chiunque vi viveva avesse gli stessi diritti e gli stessi doveri. Nell’imminenza della decisione dell’ONU, all’inizio del 1948, lanciò una lettera aperta. NON FATELO. Altrimenti avranno inizio tragedie senza fine. Cassandra inascoltata. Anzi, detestata da molti suoi amici ebrei di un tempo. So già cosa direbbe, oggi. Non solo direbbe “ve lo avevo detto”. Ma farebbe sua – lo ha dimostrato in tanti suoi fondamentali studi, come “Le origini del totalitarismo” – la lezione di Edgar Morin. Studiare la storia, comprenderne la complessità. Quello che, chi dà le carte nel condurre il mondo, molto raramente fa.

Un’altra ebrea, grande mente, Simone Weil (nella foto sopra), francese, mantenne un atteggiamento laicamente critico nei confronti della storia e della cultura ebraica. Criticò la Chiesa Cattolica, troppo legata al Vecchio Testamento, mentre il cristianesimo, al quale si avvicinò, avrebbe dovuto tenere vive le sue radici greche. Una sua sovrapposizione di platonismo e cristianesimo che non mi convince è che, qui, non è il caso di approfondire. Aderì a France Libre di De Gaulle e raggiunse l’Inghilterra dove il movimento aveva la sua base. Dedicò le sue ultime riflessioni e scritture a una grande questione, assai viva, in questo stesso momento. Si chiedeva, e scriveva. Quale Europa, dopo la guerra? Quale società, visto che quella illuminista e capitalista è precipitata nell’orrore, e quella comunista “opprime”? Mentre in questi giorni rileggevo alcune delle sue ultime pagine, riprendendole dopo molto tempo, ho sentito le parole di Mario Draghi, chiamato al capezzale di una Europa malata. Ho provato un effetto di spaesamento, nel passare da Weil a Draghi. Dal passato al presente. Un cesura senza possibili ponti. Unica ipotetica analogia. Parole molto allarmate, senza sfumature, nette. Per il resto, mondi abissalmente distanti.

Certo, nel caso di Weil, siamo in ambito filosofico politico, ma l’oggetto è lo stesso, l’Europa. E nel caso di Draghi? Quale ambito? Economico e finanziario? Politico? Alcuni passaggi di Draghi non mi sono dispiaciuti. Rafforzare il welfare. Bene. Perché? Per aiutare la crescita. Ma per competere con colossi che altrimenti ci divorano, se non potenziamo l’industria, a partire da quella delle armi, l’Europa è finita, f-i-n-i-t-a. L’ha detto più volte, con enfasi. Qui, per me, va molto meno bene. E sono tornata all’Europa che Weil disegna per il futuro, un futuro che lei non vide. Morì poco dopo. È il passato che spiega la crisi. L’oppressione e il dominio, che hanno violato corpi, e umiliato pensieri e libertà, ci hanno portato fin qui. Le rivoluzioni hanno risolto? Non hanno risolto. Perché? O hanno creato miti illusori, come l’esistenza di diritti naturali, da esigere, o altrettante negazioni di libertà, anche se di segno opposto alla libertà liberista ben più che liberale. Dice Simone Weil: Non debbono esserci individui – nella Europa futura – che urlano per chiedere diritti che in natura non esistono. È la società, le società della nuova Europa che deve darsi doveri indiscutibili verso ogni essere umano, che non è individuo astratto, persona, termine generico che, in latino, vuole dire maschera – una sorta di anonimato – ma è essere umano vivo che ha un corpo, sacro.

Scrive. “In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona… È semplicemente lui, quell’uomo… lui nella sua interezza. Braccia, occhi, pensieri, tutto… La nozione di diritto, lanciata nel mondo nel 1789, non ha potuto, per sua intrinseca insufficienza, esercitare la funzione che le era stata assegnata”. E, mentre scriveva, negli ultimi mesi della sua vita, all’inizio del 1943, non sapeva quello che noi sappiamo. L’olocausto non solo di un popolo, ma di quella che pensavamo – un po’ presuntuosi – essere il punto più alto della umana civiltà, la nostra civiltà. Si tentò, poi, di ricostruire la civiltà perduta. Evidentemente in modo assai imperfetto. Furono scritti diritti, più universali di quelli del 1789, in Dichiarazioni e Costituzioni. La nostra, del 1948, contiene alcuni passi che a Weil non sarebbero dispiaciuti. Perché è la Repubblica che deve rimuovere gli ostacoli che rendono difficile o impossibile la nostra vita. La Repubblica ha doveri. La società ha doveri verso ogni essere umano. Doveri che metterebbero in soffitta diritti che, senza il precedente dovere, risultano inesigibili, o ridicoli. Essere felici è un diritto? Sento Simone che mi sussurra in un orecchio “Suvvia, non farti domande sciocche”. Un capovolgimento, questo proposto da Weil. Indica un esempio di straordinaria efficacia.

Ve lo immaginate San Francesco che parla di diritti? Anche Hannah Arendt, che non conosceva questi scritti di Weil, critica la teoria del diritto naturale. La natura non ci fornisce diritti, ma un corpo, quasi il più debole di ogni altra forma animale. In natura non c’è né bene né male. Ma, dopo San Francesco, ci fu Immanuel Kant, che ci parlò di Ragion Pratica e di doveri indiscutibili che abbiamo verso ogni umano, non esclusi noi stessi. Una comune ragione etica. Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Allora? Né imperativi religiosi, né imperativi etici, ben più cogenti dei diritti, sono diventati common sense. Prevalgono leggi inapplicate, poteri, dominio, forze che opprimono, anche nascostamente.

Da pochi mesi è stato ricordato il centenario della nascita di Danilo Dolci, uomo di pace, il Gandhi italiano, fu definito. Diffidava di ogni potere, parola che detestava – troppo ambigua, come persona per Weil – e non l’usava mai. Un potere può anche essere rivolto a finalità giuste, da realizzare. L’aveva sostituita con dominio, dei corpi, delle menti. Il dominio che Simone Weil aveva sperimentato in fabbrica, dove aveva patito, volutamente, la enorme forza del dominio, sul corpo e sulla mente. Diffidando di chi spiegava in modo teorico lo sfruttamento operaio, volle immergersi nella fabbrica. E sperimentò l’essere ridotti a nulla, nel corpo straziato e nel pensiero che smette di pensare. Il nulla che oggi vediamo nelle campagne del nostro Sud, dove la schiavitù è tornata. E ancora in molti luoghi del mondo.

Dominio, diceva Dolci, e non solo sui corpi. Aveva visto in anticipo quanto potevano essere invasivi i media, dominanti nel colonizzare il nostro immaginario. Difficile dargli torto. Si diede il compito, in Sicilia, dove si si trasferì, di contrastare la mafia con la formazione, l’educazione, l’esempio. Ho avuto la fortuna di conoscere Danilo Dolci, a Ravenna. L’incontro – eravamo nella sala assemblee della allora Casa dello studente, oggi Palazzo Corradini, sede dell’Università – si ebbe per iniziativa di un amico carissimo, Romano Biancoli. Erano gli anni – fine Settanta, inizio Ottanta – che portarono Romano a transitare dal marxismo, certamente non rifiutato, alla psicoanalisi. Come dire, le strade da percorrere sono più di una. All’umano ci si arriva non trasmettendo, ma comunicando con dialogo maieutico. Metodo antico, quasi mai seguito, da riproporre, secondo Dolci, e secondo Romano. Romano poi divenne uno psicoanalista di valore. Credo non abbia mai dimenticato la lezione di Dolci.

Quindi, riassumendo, come districarci, oggi? Tenere presente la lezione di Morin sulla necessità di comprendere la complessità della storia è sicuramente indispensabile. Continuo ad esserne convinta, anche dopo avere letto una sconfortante intervista a Francesco Benigno, che sottolinea come la fiducia nella Storia, intesa come itinerario di progresso, sia pressoché scomparsa. Fenomeno visibile da tempo. Prevale contingenza, tempo corto, sfiducia nel futuro. Di conseguenza, piccoli orti identitari vengono coltivati, come ancora di salvataggio. Un paradosso, in un mondo sempre più global, che unisce tecnologia avanzatissima e barbarie crescente. Con Valditara che vuole cambiare i programmi scolastici di storia, che debbono – dice – insistere di più sulla identità italiana. Ridiamo o piangiamo?

La storia, la conoscenza del passato, va rimessa in primo piano. Per setacciare la complessità, per ricostruire la comprensione, per quanto possibile, del tempo prima di noi, confluito in noi. C’è una cesura fra il tempo presente e il prima. Non è conosciuta la storia dell’Italia, né la storia dell’Europa, figuriamoci del mondo. A tutto questo ho ripensato, aiutata da Edgar Morin, Simone Weil, Danilo Dolci. Mentre cercavo di connettere qualche filo, arriva la sentenza di rinvio a giudizio con la richiesta di una pena di 6 anni per il ministro Matteo Salvini. Come – dice – io che ho difeso i confini della Nazione italiana dalla invasione di 170 aggressori, vengo incriminato anziché ringraziato? C’è proprio un abisso fra pensiero e pensiero. È pensiero quello di Salvini? Hannah Arendt direbbe di no. Solo l’assenza di pensiero può spiegare i paradossi di Salvini.

Non esistono ponti che possano portare a un dialogo fra Morin e Salvini. Ed è una tragedia l’assenza di ponti. Oltre che il centenario della nascita di Danilo Dolci, il 2024 è in bicentenario di qualcosa di immenso. La sinfonia numero 9 di Ludwig van Beethoven, che si conclude con il coro L’inno alla gioia, parole di Schiller. È un Beethoven alla fine della sua vita. Deluso dalla storia, da Napoleone, all’inizio ammirato, poi cancellato. Lui, passionale democratico, in una Europa nel pieno della Restaurazione. Ma la gioia può trovarsi solo nella fratellanza umana. Aderisce al pensiero etico e politico di Schiller, e lo affida a una musica immensa. L’Europa ha scelto L’Inno alla gioia come proprio. Stiamo vivendolo con coerenza, o “l’anima bella”, dove dovere e felicità coincidono, dice Schiller, è, più che utopia, illusione? Per quanto mi riguarda, non ho risposta. Quello che posso vedere è come la complessità ci mostri che la forza e l’uso che se ne fa continua ad avere grande fascino. Chi non la usa, è debole, privo di fascino. Lo dice, con dolore, Simone Weil, nello stesso momento in cui ci dice che di sacro abbiamo il corpo e il pensiero che il corpo emana.

Mi piace pensare che i giudici di Palermo abbiano operato in base a leggi non scritte – la eterna legge del mare, per esempio -, quelle di Antigone, ma in base ai doveri che ogni società ha nei confronti degli umani, che di sacro hanno tutto, dalla testa ai piedi. Creonte chiede ad Antigone. Ma a quale legge ti riferisci? Non certo alle mie leggi. E Antigone. Alla legge non scritta della Giustizia, la Diche.