Il ritorno della schiavitù
il Parlamento britannico ha chiuso il ciclo storico iniziato con l’abolizione della tratta degli schiavi, approvando il Safety Rwanda Bill con il quale viene disposta la deportazione in Rwanda degli immigrati sbarcati irregolarmente sulle coste inglesi.
Gli atti di genocidio che si susseguono senza soluzione di continuità a Gaza e il massacro infinito sul fronte russo ucraino (dove è passata sotto silenzio la notizia che le perdite ucraine ammontano a 500.000 uomini), più che provocare indignazione o ripudio, stanno creando assuefazione e rientrano nella normalità degli eventi che l’informazione ci propina ogni giorno mescolandoli alle cronache più banali. Ma la corsa alla disumanizzazione nelle relazioni internazionali non si arresta agli eventi estremi del genocidio e della guerra. Ci sono molti fronti sui quali si sperimentano pratiche disumane, inconcepibili fino a qualche tempo fa.
La persecuzione del popolo dei migranti e richiedenti asilo ha superato una soglia che ci fa fare un balzo all’indietro di secoli.
Il 25 marzo 1807 il Parlamento inglese approvò lo Slave Trade Act, vietando il commercio e la tratta degli schiavi: nel corso di pochi anni anche le altre potenze coloniali abolirono la tratta degli schiavi e nell’atto finale del Congresso di Vienna (8 febbraio 1815) venne sottoscritta una Dichiarazione contro la Tratta dei negri. Il 23 aprile 2024 il Parlamento britannico ha chiuso il ciclo storico iniziato con l’abolizione della tratta degli schiavi, approvando il Safety Rwanda Bill con il quale viene disposta la deportazione in Rwanda degli immigrati sbarcati irregolarmente sulle coste inglesi. Per quanto calata in un differente contesto storico, l’operazione di deportazione in Rwanda di circa 52.000 (secondo la BBC) immigrati, quasi tutti di origine africana o asiatica, nella sostanza non differisce dalla Tratta degli schiavi praticata dalle potenze coloniali fino agli albori dell’Ottocento. Ora come allora un potere di coercizione si impadronisce dei corpi e del destino di un numero indefinito di persone e li trasporta a 10mila chilometri di distanza, scaricandoli in un territorio nel quale non erano diretti quando hanno intrapreso il viaggio della speranza che li ha portati in Gran Bretagna; un territorio, il Rwanda, col quale non hanno alcun rapporto e nel quale non hanno alcuna possibilità di vivere una vita degna. Da un punto di vista pratico si tratta di un sequestro di persona collettivo, ma in realtà è qualcosa di più, è la riduzione di queste persone nella stessa condizione degli schiavi che, dopo la cattura, venivano imbarcati sulle navi negriere per essere deportati in terre lontane. L’unica differenza è la diversa rotta, non più dall’Africa all’Europa ma dall’Europa all’Africa.
Con il Safety Rwanda Bill Il processo di degrado dell’ordine internazionale, costruito a partire dal 1945 e fondato sui principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, ha subito un altro irrimediabile affronto. Dopo la rilegittimazione della guerra come strumento ordinario della politica per risolvere le controversie internazionali, adesso assistiamo a una ribellione aperta contro quegli strumenti internazionali di protezione dei diritti umani che costituiscono – secondo il filosofo Italo Mancini – la gloria del Novecento, il patrimonio morale che l’Occidente ha elaborato per l’umanità intera.
Le associazioni per i diritti dei rifugiati hanno annunciato ricorsi alla Corte Europea per i diritti dell’uomo e l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha chiesto al premier inglese di “riconsiderare il piano” ma il leader inglese Rishi Sunak non ha alcuna intenzione di ripensarci e non ha alcuno scrupolo a fare strame – fra l’altro – delle regole della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, che vieta espressamente le espulsioni collettive di stranieri (art. 4 del Protocollo 4), e a ribellarsi alla giurisdizione della Corte di Strasburgo e delle Corti inglesi. Infatti ha promesso che «nessun tribunale fermerà i trasferimenti».
Qui non si pone soltanto un problema astratto di rispetto del diritto internazionale. Le norme del diritto internazionale dei diritti umani traducono in vincoli giuridici delle esigenze etiche poste a base della vita civile poiché – come recita il Preambolo della Dichiarazione Universale – «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali e inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». È assurdo che una scelta così scandalosamente disumana venga fatta passare nell’opinione pubblica senza neanche un fremito di indignazione da parte del sistema politico e dei media. Probabilmente ciò deriva dal fatto che questa scelta si inserisce nel solco delle politiche disumane praticate dall’Italia e dalla stessa Unione Europea nei confronti del fenomeno dell’immigrazione attraverso l’omissione di soccorso in alto mare, i respingimenti (indiretti) in Libia, l’esternalizzazione delle frontiere attraverso concordati con regimi autoritari.
Come ha fatto con la guerra in Ucraina, istigando Zelensky a proseguire il conflitto incurante dei costi umani, adesso la Gran Bretagna tira la volata all’Europa sul fronte della persecuzione dei rifugiati, fino al punto da ripristinare pratiche che sembravano definitivamente ripudiate dalla storia dell’umanità. Non è un caso che la scelta di Sunak sia stata apprezzata dalla Meloni che, alla luce della sua cultura politica, la considera un modello di riferimento. Un modello, tuttavia, non applicabile in Italia perché c’è la Costituzione e qualche volta i giudici si ostinano ad applicarla, incuranti dell’indirizzo politico del Governo.