Colpo di stato oggi nell’aula del Senato
Il signore in questione non è nuovo alle cavalcate simil-garantiste, che del garantismo usurpano nome e definizione. Si tratta ora del divieto apposto alla pubblicazione integrale dei testi delle misure cautelari. Queste ultime sarebbero, in base a simile rituale pre-analogico- rese note a cittadine e cittadini (che hanno tutto il diritto di sapere) solo per stralcio: secondo, insomma, la buona volontà e la scelta personale di chi informa.
In realtà, il testo non è altro che un segmento sciagurato di una tendenza ormai nettissima: le mani della destra sulle città dell’informazione.
Non per caso gli osservatori europei hanno messo sotto osservazione diversi aspetti degenerati della vita istituzionale italiana, tra cui spiccano proprio le continue lesioni apportate all’articolo 21 della Costituzione.
Ecco, l’articolato in esame è l’ultimo colpo in ordine di tempo inferto ad un ordinamento democratico che, già minato negli anni con responsabilità plurime, rischia ora di oscillare fino al crollo finale. E non è un’esagerazione avere simile timore, visto che una caratteristica saliente delle democrature (Ungheria, Polonia, fino all’odierno villaggio meloniano) è la subordinazione imposta ai contropoteri, siano essi la magistratura o il mondo non asservito dei media. Lo sgorbio introdotto nella legge di delegazione non c’entra nulla con la stessa Direttiva 2016/343 cui si vorrebbe riferire ed è in netto contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte Europea del Diritti dell’Uomo (CEDU).
Il mezzo è il messaggio, per parafrasare l’incolpevole McLuhan. Il mezzo-emendamento reca un messaggio evidente: di quanto è inerente a coloro che contano non si deve conoscere se non la pura cornice, magari ininfluente.
Il segreto è una strategia e non ha a che fare con le persone semplici e lontane dalle stanze o stanzette dei bottoni. La storiella della privacy da tutelare non tocca né i poveri né i disagiati. Riguarda, invece, chi non può sopportare la verità sui suoi traffici e sulle sue (cattive) azioni.
Il filo nero si connette al ricorso costante alle querele temerarie, all’assenza di qualsiasi respiro riformatore. Mentre la stampa è ai minimi storici (l’Unità -di cui si celebra il centenario- vendeva la domenica come la somma odierna delle testate), l’emittenza locale vive giorni assai infelici, la regolazione dei conflitti di interesse resta una chimera e il servizio pubblico radiotelevisivo è sotto schiaffo.
La Rai, dopo i fasti barocchi sanremesi, è tornata nel ciclone polemico, a causa dell’improvvido riflesso censorio dell’amministratore delegato Roberto Sergio, supportato da una ormai stucchevole Mara Venier padrona pluriennale della domenica pomeriggio sulla rete ammiraglia.
Il casus belli ha riguardato le legittime opinioni espresse da due artisti come Ghali e Dargen D’Amico, fino a prova contraria in possesso dei dritti previsti dalla Carta fondamentale. L’accenno alla funzione dei migranti o la battuta sul genocidio perpetrato dall’esercito israeliano a Gaza, crimine peraltro oggetto di istruttoria presso la Corte internazionale di giustizia su iniziativa di uno Stato sovrano come il Sudafrica, non potevano e non dovevano subire bavagli. Ed è incredibile, anche perché pericoloso precedente, che ci si sia piegati ad un improvvido intervento dell’ambasciatore d’Israele. Una prova di debolezza e di soggezione ad un’entità istituzionale che si è arrogata un ruolo ultroneo. In altri paesi una tale telefonata non avrebbe varcato la soglia del centralino.
Il servizio pubblico è sotto il fuoco concomitante della riduzione delle risorse e di ogni residua autonomia.
Il partito democratico ha promosso una settimana fa un sit in davanti alla direzione generale dell’azienda, con la partecipazione anche di associazioni come Articolo21, la Rete NoBavaglio e MoveOn.
Bene, ma una rondine non fa primavera. E l’inverno non dà tregua.