Una politica volta ad alimentare l’insicurezza sociale, che investe nella paura, trova la sua legittimazione nel volto feroce dello Stato costruito attraverso l’ipertrofia del diritto penale. Quello che viene articolato è una sorta di diritto penale del nemico
Di Domenico Gallo
Con l’annuncio del nuovo pacchetto di sicurezza che sarà presentato in Parlamento come disegno di legge, prosegue l’esasperazione delle questioni di ordine pubblico e l’uso del populismo penale come strumento di consenso politico e di discriminazione sociale. Non si tratta di una tecnica nuova, fu inaugurata nel 2008/2009 con i “pacchetti di sicurezza” imposti dalla Lega, miranti a criminalizzare l’emarginazione sociale e a discriminare gli immigrati. Con il nuovo disegno di legge recante:” disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” vengono inventati nuovi reati, elevate ulteriormente le pene per reati comuni, criminalizzate condotte già depenalizzate (come il blocco stradale). Una politica volta ad alimentare l’insicurezza sociale, che investe nella paura, trova la sua legittimazione nel volto feroce dello Stato costruito attraverso l’ipertrofia del diritto penale. Quello che viene articolato è una sorta di diritto penale del nemico. I nemici da punire con lo strumento penale ovviamente vanno ricercati nelle fasce di emarginazione sociale. A differenza dei colletti bianchi, nei confronti dei quali vige il “diritto mite” apprezzato da un Ministro garantista come Nordio, nei confronti degli immigrati, dei senza tetto, della microcriminalità si può dispiegare la potenza punitiva dello Stato, senza limiti ed in barba alla decenza.
In barba alla decenza è la norma che cancella il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena nei confronti di donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni uno. Si tratta di una disposizione che ha un obiettivo discriminatorio ben preciso: le donne rom, che sono la componente quasi esclusiva della popolazione delle detenute madri.
Sul fronte dell’ordine pubblico, le nuove norme puntano ad una crescente criminalizzazione della marginalità sociale e ad un incremento della repressione del dissenso e del conflitto sociale. Fanno capo a questo filone la creazione del nuovo reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, che incrementa notevolmente (portandola da 2 a 7 anni di reclusione) la pena già prevista per l’occupazione di terreni o edifici dall’art. 633 del codice penale, con estensione della punibilità anche a chi “si intromette o coopera” nell’occupazione; l’inasprimento delle pene per l’accattonaggio e l’innalzamento da 14 a 16 anni dell’età dei minori il cui coinvolgimento in tale condotta è punibile; la previsione del cosiddetto DASPO ferroviario, che attribuisce al questore la possibilità di vietare l’accesso nelle stazioni dei treni e della metro e nei porti a chi è stato denunciato o condannato per reati contro la persona o il patrimonio. La repressione del conflitto sociale avviene anche attraverso la ripenalizzazione del blocco stradale, trasformato di nuovo in reato e punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni e attraverso la previsione dell’aumento di pena di un terzo per la resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commesse in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria (fatti che avvengono, generalmente, nel corso di manifestazioni).
Per la gestione più dura del carcere viene inventato il nuovo reato (che nemmeno il fascismo aveva concepito), il delitto di rivolta in istituto penitenziario, sanzionato con pene da 2 a 8 anni per gli organizzatori e da 1 a 5 anni per chi vi partecipa. La norma precisa che la “rivolta” si può realizzare «mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più persone riunite», di conseguenza anche proteste pacifiche come il rifiuto del rancio potrebbero integrare il delitto di rivolta. Si prevede, inoltre, una specifica fattispecie delittuosa per chi istiga alla rivolta in carcere, anche dall’esterno, con scritte e messaggi diretti ai detenuti. A dimostrazione della sostanziale equivalenza tra carceri e centri per il rimpatrio degli stranieri irregolari, il ddl estende il reato di rivolta, con lieve riduzione della pena, anche alle “rivolte” che si verificano in tali centri.
Infine deve essere segnalato che il ddl conferma una norma incostituzionale contenuta nel decreto legge Salvini (il n. 113 del 2018) che ha introdotto un’inaudita discriminazione interna alla categoria dei cittadini: la possibilità, in caso di condanna definitiva per reati di matrice terroristica, di revocare la cittadinanza a coloro che l’hanno acquisita nel corso della loro esistenza e non anche a coloro che cittadini lo sono per nascita da genitori italiani. Il decreto Salvini prevede che la cittadinanza può essere revocata ai cittadini di serie B entro tre anni dalla condanna definitiva. Con la nuova normativa questo termine viene portato a dieci anni. Il nuovo pacchetto sicurezza conferma questo sfregio al principio di eguaglianza formale, che viene attuato senza alcuna ragione che non sia la discriminazione fine a sé stessa.