Deve essere subito chiaro che sul premierato proposto dal governo Meloni si gioca una partita decisiva per la salvaguardia della democrazia nel nostro paese. Perciò è necessario prepararsi subito al referendum che inevitabilmente ci sarà, se il ddl costituzionale non verrà approvato nella seconda votazione dai due terzi dei componenti di entrambi i rami del Parlamento. Attualmente, malgrado il soccorso di Renzi, l’attuale maggioranza per quanto sia ampia, grazie ad una legge elettorale truffaldina, non raggiunge tale soglia. I propositi, avanzati in particolare dal presidente del Senato, di allargare i consensi parlamentari con qualche modifica al testo non paiono destinati al successo, ed è bene che sia così.
Del resto Meloni ha già cominciato, con tutti i notevoli mezzi a sua disposizione, una campagna a favore del Sì, anche se la data del referendum sarà probabilmente nel 2025. In coerenza con la scelta di percorrere la strada di una modifica costituzionale, precisamente degli articoli 59, 88, 92 e 94 della nostra Carta. Infatti l’obiettivo di fare decidere direttamente ai cittadini chi deve governare il paese potrebbe essere raggiunto anche evitando di cambiare la Costituzione, aggirandola mediante interventi sulla legge elettorale, come suggerisce Roberto D’Alimonte (Il Sole 24 Ore del 10 novembre).
Ma l’obiettivo di Meloni è più ambizioso. Vuole affossare la democrazia parlamentare nata dalla Resistenza, invoca quindi la nascita della “terza repubblica”, ove l’antifascismo non sarebbe più una discriminante avendo perso il suo valore fondativo. Un simile disegno ha quindi bisogno di un testo costituzionale che lo sorregga, ne garantisca la continuità nel tempo e sia legittimato da una maggioranza popolare espressa nel referendum. Un referendum che, come si sa, non ha bisogno di essere validato dalla partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto, non ha quorum, quindi nessuno può rifugiarsi nell’astensionismo. Si tratta di una battaglia frontale, “battaglia soda, sanza corna e sanza piazza” si potrebbe dire usando metaforicamente Machiavelli.
Non pare, purtroppo, che il fronte che si dovrebbe contrapporre al disegno meloniano, sia ancora pronto a reggere lo scontro. Ma il tempo c’è per rafforzarlo. Ad alcune condizioni che vanno costruite subito. Sento spesso, non solo in ambienti sindacali, dire che il ddl sul premierato è fumo negli occhi per nascondere le magagne di un’economia disastrata e di una legge di bilancio che la aggrava. C’è anche questo aspetto, ma non è quello predominante. Il premierato rappresenta il punto di arrivo in salsa italiana di un progetto che ha radici lontane, dalla Trilateral Commission alla Loggia P2, e che punta al restringimento di tutti i canali democratici entro i quali possono scorrere i bisogni e le aspirazioni popolari. Quale migliore sistema per ottenere questo risultato che non costruire un impianto, come quello contenuto nei cinque articoli (ma l’ultimo contiene solo norme transitorie sull’entrata in vigore) del ddl governativo, che prevede di ridurre le funzioni del Presidente della Repubblica a quelle di un semplice notaio e un Parlamento asservito – pena il suo scioglimento – ai voleri di un presidente del consiglio eletto o di un eventuale suo subentrante facente parte della stessa maggioranza e legato al suo programma? Un Parlamento nel quale la formazione politica che arriva prima nelle elezioni, senza definire una soglia, ha assicurato il 55% dei membri?
Al contempo bisogna guardarsi dalle tentazioni emendative, purtroppo già evidenti in settori delle opposizioni, per la semplice ragione che non si può rimettere in piedi un sistema istituzionale, completamente stravolto dal disegno sopra descritto, con qualche compensazione.
Si dirà: Mattarella ha firmato l’autorizzazione alla presentazione del ddl alle Camere. Ma non è da oggi che nei discorsi ufficiali del capo dello Stato si colgono riferimenti agli equilibri fra i poteri. Probabilmente tali argomenti saranno ancora più frequenti nelle sue esternazioni. Forse la cosiddetta “moral suasion” è già in atto, anche se finora non se ne vedono gli effetti. Ma sperare che Mattarella potesse non autorizzare la presentazione del disegno di legge alle Camere non tiene conto, tra le altre cose, dell’accusa che gli sarebbe stata rivolta di difendere in primo luogo il suo ruolo, con esiti rovesciati rispetto alle intenzioni, come giustamente ha sostenuto Massimo Villone (il manifesto del 15 novembre).
Né bisogna farsi spaventare dai sondaggi che indicano una maggioranza di poco sopra al 50% favorevole all’elezione diretta del presidente del consiglio. È un dato già in discesa, quindi rovesciabile, come è successo nei precedenti referendum costituzionali.
La vittoria referendaria del No è non solo indispensabile, ma possibile, a condizione di muoversi subito, legando la difesa della Costituzione all’affermazione dei diritti e dei bisogni sociali.