Pochi giorni e si torna alle urne. Ai lati delle piazze, tra gazebo brandizzati e inquietanti gigantografie, sfiducia e confusione si respirano dense. Per molti l’indecisione è tale da diventare disincentivo all’apposizione dell’ennesimo timbro sulla scheda elettorale. Altri sono entrati in un comprensibile circolo vizioso di polemica e rassegnazione. Qualcuno, dentro e fuori l’agone politico, inizia a sollevare perplessità sul fatto che il proprio voto venga correttamente riflesso nei risultati. Questo qualcuno non ha tutti i torti. Il Rosatellum, machiavellica legge elettorale che tutte le forze politiche si erano impegnate a modificare, disciplinerà invece per la seconda volta il meccanismo di voto, e la traduzione di quel voto in seggi parlamentari.
È una legge pienamente in linea con la Costituzione? Comporta storture paradossali, come il fatto che una croce su Sinistra Italiana mandi in Parlamento un ex democristiano? Gli elettori possono fare qualcosa in merito?
Sbaglio o un paio di questi elementi ritornano nel Rosatellum?
Ritornano eccome. Il diritto di eleggere, che nella sua radice latina significa proprio scegliere, ci è stato sottratto nel 2005 con il Porcellum e non ci è più stato restituito.
Ed ecco il primo problema: il voto congiunto obbligatorio.
L’elettore non può votare un candidato all’uninominale e un partito o coalizione diversa al plurinominale, pena la nullità della scheda. Se mi piace il candidato uninominale – perché lo conosco, mi convince e voglio che sieda in Parlamento – ma non mi piacciono il partito o la coalizione che lo appoggiano, non posso farci niente. Il mio voto andrà necessariamente anche a loro. Vale anche il viceversa: se condivido le idee di uno specifico partito, ma non voglio dare un seggio al candidato uninominale poiché per me impresentabile, o perché appartiene a un altro partito della coalizione a me lontano, non posso evitarlo. Se ne sta parlando molto con riferimento a Bologna, dove chi vorrà sostenere Civati darà automaticamente il proprio voto a Casini.
Croce sul nome dà il voto anche al partito, croce sul partito dà il voto anche al nome. Non suona molto diretto.
E avvantaggia le coalizioni. Il voto dato al solo candidato uninominale, se sostenuto da una coalizione, viene spalmato su tutti i partiti che ne fanno parte. Non in maniera equa, ma in base ai voti che ciascun partito della coalizione ha ricevuto dagli altri elettori, quelli che hanno scelto di mettere la croce direttamente sul simbolo. Una soluzione migliore sarebbe stata suddividere quel voto in parti uguali tra i partiti della coalizione. Il che, però, avrebbe contrastato con l’obiettivo di questa legge, che è quello di favorire il partito più forte della coalizione. Da qui la convenienza, per i partiti, ad allearsi, pur senza l’obbligo di avere un programma comune. E pur sapendo che dal giorno successivo al voto i partiti potranno creare governi e maggioranze con qualsiasi altra parte politica, anche molto lontana dagli alleati con cui si sono presentati in coalizione.
Veniamo al voto libero: le liste bloccate.
Di per sé non sono incostituzionali. Lo diventano nel momento in cui esprimono la totalità o una grande maggioranza del Parlamento. Con le liste bloccate, i partiti presentano in ciascun collegio un elenco preconfezionato di due – quattro nominativi di loro gradimento, imponendo anche l’ordine di elezione. L’elettore non può esprimere preferenze: se appoggia il partito, ma non un candidato della lista, non può evitare di votarlo. Non può essere sicuro che il suo voto non favorisca proprio lui. In realtà non ha nemmeno la certezza di chi, con quel voto, stia effettivamente favorendo.
Questo anche per via della pluricandidabilità: ciascuno può candidarsi in un collegio uninominale e in ben cinque collegi plurinominali.
In merito a questo la Corte Costituzionale ha dovuto richiamare una sentenza del tribunale federale tedesco, per mancanza di precedenti. Il principio, lì, è che nessun candidato può essere favorito o sfavorito dal comportamento degli elettori in una circoscrizione diversa da quella in cui è candidato. In questo modo, invece, i voti possono migrare da una parte all’altra d’Italia, al punto che un partito potrebbe vedersi assegnare seggi nel collegio di Napoli in virtù di voti ricevuti a Milano.
Il che fa venir meno sia il legame territoriale che la conoscibilità dei candidati.
Elementi che la Corte ha più volte riconosciuto come essenziali, criticando per questo anche le liste lunghe e le preferenze, le quali oltretutto aprono al rischio dei voti di scambio. Ma esistono vie di mezzo: in Svizzera le liste sono bloccate, ma l’elettore ha facoltà di eliminare uno o più candidati non graditi. In Germania le liste vengono prima proposte agli elettori, e qualsiasi iscritto al partito può contestare candidature non in linea con lo statuto.
Il voto non è nemmeno uguale?
In alcuni casi, no. Per via delle soglie di sbarramento e della riduzione del numero dei parlamentari, si creano distorsioni al Senato, in cui i seggi sono assegnati su base regionale. Ci sono regioni – come il Trentino Alto Adige, le cui province autonome sono equiparate a regioni e dunque hanno diritto a tre seggi ciascuna – che hanno lo stesso numero di seggi di altre regioni, come la Calabria, avendo poco più della metà dei residenti. Oltre agli squilibri in termini di numero di cittadini per rappresentante, è come se un elettore del Senato in Trentino valesse quasi il doppio di uno in Calabria.
Però non c’è il premio di maggioranza.
Il Rosatellum è stato scritto per aggirare le dichiarazioni di incostituzionalità su Porcellum e Italicum. Ma in realtà il premio di maggioranza c’è, proprio per via del travaso automatico dei voti dall’uninominale al plurinominale. Con il voto congiunto e senza scorporo, e il complesso meccanismo di arrotondamenti e resti, una coalizione con il 35% dei voti, se distribuita omogeneamente sul territorio, può ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento.
Il che, oltre che plausibile, è piuttosto inquietante.
Il premio di maggioranza implicito nel Rosatellum non è quantificabile, ma potrebbe essere addirittura superiore a quello che era stato giudicato incostituzionale nei due casi precedenti. Se il sistema è misto, il messaggio all’elettore è che ci sia corrispondenza tra i voti in entrata e i seggi assegnati in uscita. Con i premi impliciti, questo assioma viene meno. Da questo punto di vista funzionava meglio il Mattarellum: i voti utilizzati per eleggere un candidato al maggioritario venivano scorporati dai conteggi per il proporzionale. Adesso, al contrario, vengono trasferiti, con effetto aumentativo.
C’è qualcosa che il singolo cittadino può fare per scardinare questo meccanismo, o per dare un segnale di consapevolezza della limitatezza del voto?
Indubbiamente votare il solo candidato all’uninominale comporterebbe, in caso di riconteggio dei voti, una ripartizione dei seggi più vicina alle reali intenzioni di voto, perché i voti assegnati ai soli candidati uninominali verrebbero scorporati dalla parte proporzionale. Inoltre, ogni cittadino, dopo aver votato, può consegnare al segretario del seggio un reclamo sul Rosatellum, chiedendo di verbalizzarlo. È un diritto garantito dalla legge, chi si rifiuta di rispettarlo rischia da sei mesi a tre anni di carcere. Azioni come questa potrebbero indurre Giunte Elettorali particolarmente illuminate a sottoporre la questione alla Corte Costituzionale. I ricorsi in Tribunale sono la via tradizionale e la stiamo percorrendo, ma è complessa. Servono percorsi paralleli, meno onerosi e più rapidi. Serve il coinvolgimento degli elettori, il contributo dei media, la pressione dell’opinione pubblica.
Cosa accade se si elegge un Parlamento con una legge che ex post si rivela incostituzionale?
Dipende dalla sentenza della Corte. Nel caso del Porcellum c’è stato un accoglimento nel principio, ma privato di un effetto concreto su quella elezione. La decisione sarebbe valsa per il futuro, ma non con riferimento ai proclamati.
Quindi un Parlamento eletto con legge incostituzionale può comunque governare.
Se il Presidente della Repubblica glielo permette, sì. C’è una norma che si dimentica spesso: il Governo non può presentare progetti di legge senza l’autorizzazione del Presidente. Quest’ultimo potrebbe imporre al Parlamento una modifica immediata della legge elettorale, pena lo scioglimento delle Camere. Se non lo fa, quantomeno non dovrebbe autorizzare il Governo a proporre riforme della Costituzione.
Avvocato, la legge elettorale perfetta esiste?
In mancanza di soggetti politici pienamente democratici, sia al loro interno sia in termini di rapporti con l’esterno, ogni legge elettorale avrà difetti di rappresentanza. Tuttavia si possono produrre leggi più difficilmente impugnabili, meno lesive della rappresentanza, più cautelative della stabilità. Leggi in cui i partiti propongono, ma gli elettori sono liberi di dissentire.
Quello tra rappresentanza e stabilità è un trade-off inevitabile?
La stabilità del Parlamento deriva dalla qualità dei soggetti in campo. In Italia si sono sempre succeduti tanti governi, ma non è mai accaduto che si rovesciassero maggioranze durante la legislatura. È accaduto con queste leggi, che avrebbero dovuto portare stabilità. Invece, le varie forme di forzatura della rappresentanza, introdotte in nome della governabilità, hanno tolto alla prima ma non hanno affatto giovato alla seconda. Anzi, questa si è tradotta in instabilità politica, minando anche la funzione di controllo che il Parlamento ha sul Governo in qualsiasi sistema democratico rappresentativo.