Con il deposito delle liste i segretari dei partiti hanno di fatto “eletto” il prossimo parlamento. Ora non rimane che attendere la ratifica del corpo elettorale. L’unica residua incognita rimane il numero dei parlamentari assegnato a ciascun partito, ma, visti i sondaggi, si tratta in fondo di un dettaglio.
Forse un manipolo di “designati” non riuscirà ad ottenere il seggio, certo è che nessuna scelta è rimessa all’elettore.
Un procedimento in palese conflitto con i principi enunciati dalla Consulta che aveva chiarito, senza possibilità d’equivoco, che i sistemi elettorali non possono giungere a privare l’elettore di ogni potere di scelta dei propri rappresentanti ed assegnare per intero la “nomina” dei parlamentari alle decisioni dei partiti nella composizione delle liste.
Non può stupire allora lo spettacolo, francamente penoso, cui abbiamo assistito in questi giorni e che ha coinvolto, senza eccezione alcuna, tutte le forze politiche. Alcuni partiti hanno mostrato in pubblico il peggio di sé, altri hanno fatto i conti nel chiuso delle proprie segreterie. Nessuna forza politica si è, però, potuta limitare a presentare agli elettori dei candidati, tutte hanno “nominato” direttamente dei parlamentari, circondati da figuranti posti in lista, ma senza alcuna possibilità di successo.
Al di là dei fatti di cronaca – che pure hanno mostrato impietosamente le miserie della politica come professione – c’è da chiedersi se in tal modo non si sia “determinata una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea [del prossimo Parlamento], nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente”: sono queste le parole con le quali nel 2014 la Corte costituzionale motivò l’illegittimità costituzionale del sistema elettorale allora vigente.
L’incostituzionalità del sistema di designazione dei candidati da parte dei partiti nasce dal fatto che la normativa attuale finisce per travolgere la stessa ragion d’essere della “rappresentanza politica”, che deve essere individuata nella instaurazione di un “rapporto” tra elettore ed eletto. Ora, invece, l’eletto non deve più rispondere al corpo elettorale, neppure a quella parte di esso che lo ha scelto preferendolo ad altri candidati. Egli deve la propria elezione esclusivamente al segretario di partito ovvero agli equilibri che governano la vita interna alle forze politiche: sono essi che lo hanno collocato dentro una lista bloccata o in un collegio uninominale in una posizione (più o meno) sicura.
Il rapporto con il territorio sfuma, così come le capacità e il ruolo delle singole personalità politiche diventano irrilevanti; da qui le proteste contro i candidati “paracadutati” o spostati da una regione ad un’altra come in un gioco di figurine. Non sono più gli elettori a decidere, e dunque non è a questi che bisogna più guardare.
La rappresentanza diventa un rapporto di natura privatistica, tra leader e candidato. Nello svolgimento del mandato il parlamentare dovrà rispondere a chi lo ha designato e dal quale dipenderà l’eventuale conferma al termine della legislatura. Mentre la Costituzione si preoccupa di svincolare l’eletto da eventuali obblighi nei confronti dell’elettore (il principio del “libero mandato”, ex art. 67 Cost.), si affermano in via di fatto vincoli politici di natura privatistica tra “rappresentanti della nazione” e singoli leader.