Lucidamente si è scritto in queste pagine della Costituzione «non violata, semplicemente ignorata» (Gaetano Azzariti, Massimo Villone, Francesco Pallante), si è insistito sulla temporaneità delle cariche e sulla durata del mandato, si è denunciata l’ennesima pessima prova dei partiti politici; così come si è detto, e si dirà, delle ragioni del sistema elettorale proporzionale.
Colpiscono, ripercorrendo le cronache di questi giorni, due elementi: l’appiattimento del tempo sul presente e l’irrilevanza del senso del limite.
Presidente della Repubblica. Complice un’informazione embedded rispetto alla logica dell’evento (coerente anch’esso con l’hic et nunc), il trascorrere delle ore e delle votazioni è stato rappresentato come inutile, una sconfitta, un peso.
Ora, certo lo spettacolo offerto dal dibattito politico facilita la sua percezione come “tempo sprecato”, ma resta che l’elezione del Presidente della Repubblica non è una corsa sui cento metri, ma una lenta camminata verso un punto di incontro.
Non sono le esigenze del presente (dalle aspirazioni dei vari esponenti politici a acquistare visibilità o potere contrattuale alla stabilità del governo Draghi passando per i timori di una fine anticipata della legislatura) a dover essere considerate, ma la creazione di una convergenza che garantisca ora e in futuro la rappresentanza dell’unità nazionale.
Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni, il distacco dalla contingenza è insito nel suo mandato di garanzia; il che, per inciso, implica che percorra l’intero settennato e non sia una carica “a disposizione” della maggioranza di turno, in totale spregio della sua ratio.
Non è un’anomalia che si succedano i giorni e le votazioni, lo è se mai che si possa pensare di traslocare senza soluzioni di continuità da un organo ad alta intensità di indirizzo politico ad uno di garanzia.
Di nuovo il tempo, che non è quello presente, ma richiede un periodo di raffreddamento. E il non rispetto del limite, quando si prospetta una torsione dell’ordinamento, senza considerare le ragioni profonde che sottostanno all’assetto istituzionale.
Si è manifestata prepotente in questi giorni una insofferenza, ormai di lungo corso, per i tempi della discussione parlamentare, che fornisce, oltre che un (altro) facile assist a chi mira alla demolizione del Parlamento, alimento alla virata verso presidenzialismi e semipresidenzialismi (non a caso immediatamente evocati da più parti).
Il Presidente deve essere eletto direttamente, senza “perdere tempo”, immediatamente, senza mediazioni; il Presidente deve decidere, non accordarsi (scordando, come si insegna nei corsi di diritto costituzionale comparato, che in una forma di governo presidenziale sono imprescindibili checks and balances, e un organo legislativo forte è quanto mai necessario, sempre, ça va sans dire, che si voglia aspirare a essere una democrazia).
Non è solo a rischio la Costituzione del 1948, ma il senso profondo del costituzionalismo, della limitazione e dell’equilibrio dei poteri.
Legge elettorale. È una buona notizia il ritorno nella discussione del sistema proporzionale (per inciso, necessaria toppa alla ferita alla rappresentanza causata dalla riduzione del numero dei parlamentari), ma non sono le sue ragioni a riportarlo in auge, dopo la sua demonizzazione nel nome del credo maggioritario, bensì spiccioli calcoli elettorali di forze politiche aggrappate al momento presente.
Ora, che proporzionale comunque sia (puro), ma la legge elettorale non deve essere asservita alle utilità del momento di consorterie politiche autoreferenziali.
Il sistema elettorale, cinghia di trasmissione fra sistema politico e istituzioni, mezzo attraverso il quale si dà corpo a quella rappresentanza che invera la sovranità popolare, non può essere scelto in base a calcoli di basso opportunismo.
La sua funzione è costruire la rappresentanza nei giorni che verranno, garantendo il pluralismo, ovvero tutti.
Del costituzionalismo, si tradiscono il senso del limite e la prescrittività. Quando l’eccezione si fa norma, quando le cattive pratiche si tramutano in prassi politica, il diritto diviene liquido, la norma prêt-à-porter, a disposizione – con un ossimoro per una Costituzione – di chi detiene il potere.
Ogni analogia con il “no limits” della voracità neoliberista è voluta. E un diritto e una politica appiattiti sul presente chiudono l’orizzonte. Scompare il futuro da costruire e immaginare, in coerenza con una democrazia senza conflitto.
Un presente senza futuro riproduce se stesso, cieco alle diseguaglianze sociali, alla catastrofe ambientale, violento contro chi non lo accetta (le manganellate agli studenti lo ricordano una volta di più).