È stata evitata, per ora, una crisi della democrazia italiana. Lo scampato pericolo grazie alla rielezione di Sergio Mattarella offre le basi per affrontare seriamente i problemi che sono all’origine di questa crisi, prima che sia troppo tardi. I vertici dei partiti sapevano da tempo che Mattarella era in scadenza e che aveva chiesto di non essere rieletto perché aveva in mente di fare altro nella vita, come ha ricordato agli “ambasciatori” che gli stavano comunicando la richiesta di rendersi disponibile alla rielezione alla Presidenza della Repubblica. La conferma di Mattarella Presidente della Repubblica – che a differenza di Napolitano non ha indicato scadenze più brevi del settennato – e di conseguenza di Draghi, offre un quadro di continuità. Non userei di stabilità perché vorrebbe dire non cogliere i guasti che hanno portato a questa crisi della democrazia italiana e sottovalutare i problemi dell’azione di governo fino alla scadenza della legislatura che meritano un articolo a parte.
Il primo prezzo di questa soluzione è la conferma del Presidente uscente per altri sette anni, ritenuta anzitutto dallo stesso Mattarella non opportuna (da ultimo lo ha detto in occasione del ricordo di Giovanni Leone) anche se non vietata dalla nostra Costituzione. 14 anni sono tanti per una carica istituzionale come il Presidente della Repubblica. Per questo sarebbe bene che il parlamento trovasse il modo di approvare la modifica della Costituzione che vieta la rielezione del Presidente in carica. Proposta di legge costituzionale che è già presentata in Senato. Il secondo aspetto che emerge con forza da questa soluzione è l’incapacità dell’attuale rappresentanza parlamentare di trovare un assetto politico stabile di governo, tranne quello rappresentato dal presidente Draghi proposto da Mattarella e sostenuto da un ampio arco di partiti. Solo questa soluzione è oggi in grado di portare alla fine la legislatura.
Le velleità di imporre una candidatura di destra per la Presidenza sono miseramente fallite, con la conseguenza di una crisi di credibilità verticale della destra.
Non a caso Meloni ha dichiarato che oggi in parlamento il centro destra non esiste più, mentre Salvini ha tentato fino all’ultimo di trovare una soluzione che unisse il centro destra e infatti se fosse passata qualcuna delle candidature proposte avrebbe provocato la crisi del governo Draghi. Il percorso ondivago di questa posizione aggressiva e sbruffona ha portato la destra a sbattere perché ha sbagliato dall’inizio la valutazione, non aveva la maggioranza tra i grandi elettori e ha preteso di comportarsi come se l’avesse, dopo averlo strombazzato ai quattro venti si è convinta della sua stessa propaganda. Questo ha indotto a provarci prima Berlusconi, che si è ritirato sull’orlo del burrone politico dopo avere tenuto il paese sulla corda, dimostrando la centralità che ha sul centro destra, malgrado tutto. Salvini ha bruciato candidature di varia natura dimostrando di essere incapace di una strategia politica che non sia una carica a testa bassa e ha fallito, Meloni non è riuscita nell’intento di fare saltare la coalizione. Entrambi hanno lasciato a Berlusconi ancora una volta il ruolo politico principale.
Pd, Leu, Movimento 5Stelle hanno affrontato questa prova con esiti diversi. Il Pd può non essere del tutto insoddisfatto, purché ricordi che ha dovuto ricorrere all’usato sicuro perché nessun’altra scelta si è rivelata possibile e dovrebbe riflettere se una valutazione più realistica non avrebbe potuto individuare fin dall’inizio la rielezione di Mattarella come l’unica soluzione possibile, tenuto conto che lo schieramento alternativo alla destra aveva nel M5Stelle un soggetto politico impossibilitato a soluzioni diverse, visto che il suo presupposto irrinunciabile è stato dall’inizio non cambiare il governo Draghi, per il terrore di elezioni anticipate. L’articolazione tra Conte e Di Maio nel M5Stelle non è questione di poco conto perché sullo sfondo è evidente uno sbandamento di Conte nei rapporti con Salvini.
Tuttavia lo sguardo deve andare in profondità per capire la natura della crisi della democrazia italiana. Per questo la riflessione non può limitarsi alla congiuntura dell’elezione di Mattarella.
Qualche giorno prima dell’inizio del voto per scegliere il Presidente della Repubblica c’è stata l’elezione della nuova deputata che ha sostituito Gualtieri, eletto sindaco di Roma. Cecilia D’Elia era una buona candidatura ed è stata eletta con il 59% dei voti, tanti in percentuale, purtroppo su una base dell’11% di votanti, quindi con il voto del 7% degli elettori. È l’ennesimo segnale che il distacco tra elettori ed eletti in Italia è arrivato a livelli di guardia. Continuando così si rischia di avere gli astenuti in maggioranza nelle prossime elezioni politiche e questo è un problema serio per la democrazia. Questa fase ha avuto un momento importante quando Bonaccini in Emilia Romagna nel 2014 fu eletto Presidente con una buona maggioranza ma su un 37% di partecipanti, che per questa regione è uno shock su cui non si è voluto riflettere per tempo. Del resto, non discutere dei problemi scottanti è purtroppo un’abitudine politica nel Pd e nelle sinistre. Ancora oggi non c’è stata una discussione sulla direzione politica di Renzi del Pd e sulla sua crisi verticale. Non sono d’accordo con D’Alema, il renzismo non è una malattia guarita spontaneamente, anzi è tuttora presente, non tanto per la persona in sé quanto per il significato che hanno le scelte fatte, il cui cambio andrebbe motivato. Invece l’impressione è che ci sia una vischiosità politica che continua e rende poco comprensibili le scelte politiche, anche quando sono diverse.
In ogni caso la questione di fondo è che il rapporto tra eletti ed elettori è ai livelli più bassi di sempre. Le elettrici e gli elettori vivono con distacco, con alterità quanto accade nelle istituzioni, parlamento in particolare, non si sentono rappresentati.
L’attacco al parlamento ha radici lontane. Eppure il parlamento è il perno del nostro sistema democratico e ha avuto un punto di forte crisi quando su iniziativa del M5Stelle, e per la subalternità degli altri partiti, è stato approvato il taglio del numero dei parlamentari. Il taglio è come dire che i parlamentari sono troppi e, per il ruolo che svolgono se ne può fare a meno, sottovalutando drammaticamente le conseguenze di questa decisione, che purtroppo è stata approvata dagli stessi parlamentari che in questo modo sono diventati corresponsabili, mentre avrebbero dovuto opporsi o almeno opporre una linea minimamente razionale, come poteva essere proporre il monocameralismo con 600 deputati e semmai attribuire al Senato la funzione di rapporto con le regioni come avviene in altri paesi. Il parlamento ha preso un colpo pesante, che si è aggiunto ad una credibilità già compromessa. I parlamentari hanno fatto autogoal con l’approvazione del taglio ma avevano già commesso errori tremendi quando hanno approvato a maggioranza (di destra) che Ruby è la nipote di Mubarak (su ordine di Berlusconi) e in seguito hanno accettato da tempo di subire una primazia del governo (non costituzionale) con provvedimenti come i decreti legge, i maxiemendamenti, i voti di fiducia a valanga che di fatto sono una modifica della Costituzione, nello spirito e nella pratica.
La novità è che nell’elezione di Mattarella è emerso un protagonismo del parlamento interessante.
Certo, ci sono stati promotori del voto dei grandi elettori a favore di Mattarella, in contrasto con diverse indicazioni dei gruppi. Tuttavia è un fatto che il voto dei parlamentari per Mattarella ha finito per indicare la soluzione allo stallo politico nell’elezione del Presidente della Repubblica. È corretto che il parlamento si esprima e prenda posizione. Meglio tardi che mai. Nessuno si aspettava questa vitalità, che contrasta vistosamente con i conciliaboli ristretti quanto inconcludenti dei leader. È un buon segnale, da coltivare e incoraggiare, soprattutto in vista della ripresa dell’azione del Governo. Tanti si stanno rendendo conto che un nuovo sistema elettorale è decisivo per risollevare la credibilità della rappresentanza parlamentare, che è decisiva per il nostro sistema democratico. È evidente che nella destra, e non solo, c’è la tentazione forte di rilanciare il presidenzialismo, cioè la personalizzazione esasperata della politica e soprattutto il passaggio da un Presidente di garanzia a un Presidente che è il capo di una delle fazioni in campo e questo vorrebbe dire cambiare inevitabilmente buona parte della Costituzione, dei ruoli delle istituzioni e dei poteri del Presidente. In sostanza un’altra Costituzione, accantonando quella del 1948, nata dalla Resistenza.
Sarebbe un errore clamoroso per le sinistre e i democratici del nostro paese accettare di mettere in discussione il patto costituzionale, che – come ha scritto benissimo Domenico Gallo – è la nostra patria.
So bene che ci sono state tentazioni di modifiche di fondo della Costituzione anche a sinistra, dalla bicamerale fino alla “deformazione” costituzionale renziana. Sarebbe bene chiudere questo improvvido capitolo. Basta pensare alla riforma del Titolo V, voluta dalle sinistre, che tanti guai rischia di dare senza alcune modifiche di fondo che escludano l’autonomia regionale differenziata come grimaldello per la divisione dell’Italia e la spaccatura dei diritti fondamentali degli italiani. Il primo indispensabile rimedio è una nuova legge elettorale proporzionale che dia la possibilità alle elettrici e agli elettori di scegliere alle prossime elezioni direttamente i loro parlamentari, avviando la ricostruzione di un nuovo rapporto di fiducia. Oggi i leader dei partiti scelgono dall’alto chi fare eleggere, questo stabilisce un legame di fedeltà e dipendenza dei parlamentari. È questa la spiegazione di come il Pd abbia subito l’esodo non di un singolo parlamentare ma di un intero partito (Italia viva). Troppi si attardano a negare la lezione storica che ha portato con il maggioritario guai a tutte le coalizioni. Il secondo governo Prodi è andato in crisi malgrado la maggioranza, Berlusconi è andato in crisi malgrado la maggioranza bulgara conquistata nel 2008. Il maggioritario non ha portato fortuna a nessuno.
Il secondo punto è la riforma democratica dei partiti ex art. 49 e ristabilire un finanziamento pubblico moderno e controllato dei partiti (a correzione della partecipazione politica riservata ai ricchi) con norme draconiane di controllo. Potrebbero essere contributi ad un rilancio del ruolo dei partiti per tentare di superare la loro riduzione al ruolo di comitati elettorali. A questo va aggiunto che i partiti hanno bisogno di cultura politica, di progetti, di visione del futuro, tanto più in una fase in cui sono in discussione questioni di fondo come l’ambiente, la vita stessa, la pace, il ruolo del lavoro, ecc…
La pandemia ha ridotto le relazioni sociali collettive, per questo occorre rilanciare tutte le forme possibili di partecipazione e protagonismo democratici. Non tutto può essere risolto dai partiti. Anzi su questioni di fondo è indispensabile avere un’iniziativa sociale che pretende risposte politiche. Penso di nuovo al clima, all’ambiente, come dimostra la discussione sulla tassonomia europea. Occorre una reazione corale di tutte le forme associative per correggere la direzione di marcia che interessi grevi e conservatori rischiano di deviare dal progetto di lungo termine.
La petizione contro gas e nucleare nella tassonomia europea nel frattempo è prossima a 150.000 firme.