Abituata alle consuete brutte notizie davo per scontato che le solite cornacchie avessero avuto anche stavolta ragione: presidente del Cile sarebbe stato Kast, il giovanotto naturalmente imprenditore, che considera normale avere nostalgia del generale Pinochet.
Insomma, un’opinione come un’altra, qundi assennata. E così non ho aspettato con trepidazione i risultati del voto cileno che mi sono improvvisamente apparsi alla tv, schiacciati fra l’ennesimo dibattito su chi sarà il prossimo presidente della Repubblica in Italia, e i numeri dei morti di covid. Sono sobbalzata: possibile?
La storia, la nostra storia, mi ha improvvisamente irrorato il cervello. E il cuore. Era dunque vero che «El pueblo unido jamas serà vencido», come stavano già cantando per le strade di Santiago dove si stavano riversando i nostri cileni. Questa volta davvero i nostri, più tanti altri – giovanissimi – nati nel frattempo, negli anni in cui del Cile ci eravamo quasi dimenticati.
Le elezioni che nel 1989 avevano riportato il Cile al voto dopo 16 anni di presidenza ottenuta da Pinochet con mezzi più spicci, non era stata una festa. Un sospiro di sollievo, certo, perché il referendum di qualche mese prima aveva deciso che finalmente si sarebbe votato, non, però, un momento di euforia: la dittatura non era stata davvero abbattuta, infatti, e il vecchio generale era rimasto addirittura a capo delle forze armate che avevano operato il golpe.
Ero a Santiago quando questo strano passaggio era avvenuto, membro di una delegazione parlamentare europea inviata per l’occasione nella capitale cilena:accoglienza inappuntabile, ma «Attenti – ci era stato raccomandato dai funzionari di Bruxelles che ci accompagnavano – non vi sognate di pronunciare il nome di Allende».
Quando poi, annunciati i risultati che consacravano nuovo presidente il Patricio Alwin, corremmo in strada dove tanta gente si stava già radunando sotto il balcone da cui si affacciava il vincitore, ricordo la tristezza che ci cadde addosso, a me, all’inviato dell’Unità, alle tante migliaia che sfilavano con noi, la gran parte arrivati dalle periferie proletarie, il popolo che era stato perseguitato, ammazzato, imprigionato per aver cercato di resistere a un golpe che contro di loro innanzitutto era stato ordito, cui non veniva riservato alcun tributo, alcun riconoscimento, tutti lì ad applaudire un bravo signore democristiano, capo di una estesissima coalizione in cui nessuno di loro era però rappresentato. E che non poteva citare il nome di Allende!
È durata a lungo la strana transizione cilena. Quando tornai a Santiago quasi vent’anni dopo e per prima cosa corsi alla Moneda, sicura che nel frattempo finalmente ci sarebbe stato un segno visibile di memoria di una delle pagine più drammatiche, e anche più eroica, della storia recente.
Sì, una statua di Salvador Allende ora c’era, ma piccola piccola, e fuori dal Palazzo del governo: dentro avrebbe acquisito un pericoloso significato ufficiale, disdicevole per un presidente che già per via del caschetto che indossava e il fucile che lui stesso imbracciava per difendere la democrazia, aveva violato l’indispensabile decoro necessario alla carica.
Decorosa fu come è noto, invece, la nomina a senatore a vita del generale, che gli ha garantito l’impunità, perduta solo negli ultimi anni della sua vita grazie a un’isolata iniziativa del giudice spagnolo Garzon, e al conseguente voto dell’Audienca Nacional di Madrid, curiosamente accoppiata alla Camera dei Lord britannica, che emanarono un ordine di cattura internazionale nei suoi confronti.
Di questo nuovo presidente del Cile, Gabriel Boric, siamo felici, uno straordinario regalo di Natale. È meglio di quanto avremmo mai potuto sperare: un leader del movimento studentesco, collaudato in una mobilitazione di massa che dura ormai da più di due anni, in coalizione con un buon Partito comunista come quello cileno e altri che ci sembrano bravi.
Il Cile, insieme al Vietnam, sono storia che sentiamo come nostra, tanto sono state parte integranti della nostra militanza. Di cui ci sarebbe ancora bisogno, visto come va il mondo. Intanto ci aiuta a non piagnucolare e a riprendere a cantare «El pueblo unido jamas serà vencido», senza temere stavolta la retorica o la nostalgia, ma in riferimento a un fatto realmente accaduto.