Politici, giornalisti e anche alcuni politologi e giuristi fanno a gara nell’auspicare l’avvento in Italia del semipresidenzialismo alla francese. Dapprima hanno cominciato a qualificare Draghi come il De Gaulle italiano. Sembrava di vederlo il Presidente del Consiglio appuntarsi le stellette sul petto e magari dichiarare da una radio estera la sua volontà di difendere l’unità nazionale! Al di là della battuta, sono evidenti le differenze personali tra il tecnico Draghi e il generale De Gaulle (che da Radio Londra nel 1940 lanciò l’appello alla resistenza contro l’occupazione nazista), ma anche quelle politiche (De Gaulle ha potuto contare fin dall’immediato dopoguerra su un partito che sosteneva le sue idee) e storiche (l’ascesa al potere di De Gaulle avvenne in una situazione di crisi drammatica prodotta dalla guerra in Algeria e dal colpo di Stato militare che i generali di stanza ad Algeri minacciavano di estendere all’intera Francia).
Successivamente il ministro Giorgetti si è spinto più in là dichiarando che Draghi, una volta eletto Presidente della Repubblica, potrebbe guidare il Governo «anche da fuori» dando vita a un «semipresidenzialismo de facto». In pratica si metterebbe nelle mani di un tecnico, esterno alla politica, non solo il Quirinale, ma la direzione “di fatto” dell’esecutivo, il che equivarrebbe a un harakiri dei partiti e del Parlamento, ma, quel che più conta, costituirebbe una palese violazione della Costituzione che prevede un Presidente che non esercita poteri di governo nel quadro di una forma di governo parlamentare. Al di là dell’uso spregiudicato e strumentale che alcuni politici fanno dell’elezione di Draghi come soluzione più favorevole per approdare a elezioni politiche anticipate, stupiscono le adesioni al teorema Giorgetti di studiosi di varia provenienza, la cui argomentazione di fondo è identica: il semipresidenzialismo è una delle possibilità che si ricavano dalla Costituzione vigente che per qualcuno attribuirebbe al Presidente poteri “iperpresidenziali”. Si tratta di una tesi temeraria in quanto il Presidente è qualificato come Capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale (art. 87, comma 1), e quindi agisce al di sopra delle parti, come confermano la previsione della controfirma degli atti presidenziali da parte dei «ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità» (art. 89, comma 1) e l’affermazione del principio della sua irresponsabilità per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che nelle ipotesi estreme di alto tradimento o di attentato alla Costituzione (art. 90, comma 1). Ne deriva che l’elencazione dei poteri presidenziali stabilita nella Costituzione deve essere oggetto di una interpretazione sistematica alla luce della quale la grandissima maggioranza degli atti formalmente presidenziali sono sostanzialmente governativi o complessi (quindi fondati sulla convergenza della volontà del Capo dello Stato con quella del Presidente del Consiglio).
A sostegno della tesi giorgettiana viene anche richiamata impropriamente la definizione di quello presidenziale come un ruolo “a fisarmonica” formulata in passato da Giuliano Amato. Infatti non c’è dubbio che il ruolo di stimolo e di controllo del Presidente può essere più o meno attivo a seconda dello stato di salute della politica e del raccordo tra Parlamento e Governo, ma non può in nessun caso oltrepassare, proprio come il mantice della fisarmonica, due estremi opposti. Così da un lato non può ridurre il Presidente a un semplice notaio, come sostenevano in passato molti degli attuali semipresidenzialisti quando puntavano sul predominio del Presidente del Consiglio, che sarebbe stato garantito dalla sua elezione popolare, anche qui “di fatto” in quanto totalmente estranea alla Costituzione, dall’altro non può trasformarlo in decisore politico perché ciò sarebbe incompatibile con la Costituzione che attribuisce la determinazione dell’indirizzo politico a Governo e Parlamento. In concreto, in fasi di crisi e caratterizzate dalla debolezza della politica il Presidente può avere un’incidenza maggiore nell’indicare una formula politica di governo, le principali aree tematiche di intervento dell’esecutivo, il gradimento o meno nei confronti di singole personalità proposte come ministri dal Presidente del Consiglio incaricato. Insomma può svolgere un ruolo di stimolo, di monito e di controllo, ma non può in nessun caso decidere le politiche del Governo, la cui esistenza dipende dal sostegno di una maggioranza parlamentare. E se quel sostegno viene meno, il Presidente può fare ricorso allo scioglimento anticipato solo se queste non sono in grado di esprimere una nuova maggioranza.
Nel merito poi esistono varie buone ragioni per opporsi all’imitazione del semipresidenzialismo alla francese. In primo luogo il funzionamento ordinario della V Repubblica non è stato affatto “semi” ma “ultra” presidenziale, dando al Presidente eletto dal popolo una posizione di predominio sul Governo e sul Parlamento. Certo, la situazione cambia nei periodi di cohabitation con una maggioranza parlamentare di opposto colore politico, ma dal 1958 sono stati tre in tutto e solo per nove anni. Inoltre tale ipotesi è divenuta del tutto improbabile dopo le riforme del 2000-2001 che hanno equiparato a cinque anni la durata del mandato presidenziale e di quello parlamentare e stabilito che le elezioni presidenziali precedono quelle parlamentari. L’esito delle ultime elezioni del 2017, che hanno visto diminuire la partecipazione al voto nelle elezioni presidenziali (74,62% nel secondo turno, ma con l’11,5% di schede bianche e nulle) e addirittura crollare in quelle parlamentari (dal 48,7% al al 42% tra primo e secondo turno, nel quale vi è stato il 9,9% di schede bianche e nulle), dimostra la debolezza genetica del Parlamento, considerato da poco meno dei due terzi degli elettori come un organo per il quale è inutile votare. Una situazione che “non è sana” per lo stato della democrazia (editoriale di Le Monde del 20 giugno 2017) e segnala il distacco crescente dalle istituzioni di settori sociali che si sentono privi di rappresentanza e si esprimono attraverso la protesta di piazza.
C’è qualcuno disposto a scommettere che questo modello trapiantato in Italia garantirebbe una maggiore partecipazione popolare e un maggiore equilibrio tra i poteri? In realtà accadrebbe l’opposto con un ulteriore ridimensionamento dei soggetti della mediazione politico-istituzionale (partiti e Parlamento) e il predominio del vertice del potere esecutivo. Un esito del genere sarebbe reso ancora più probabile dalla tendenza storica di una parte consistente del popolo italiano a ricercare l’“uomo della provvidenza”, che nel migliore dei casi finisce per soddisfare gli interessi propri o della oligarchia che lo sostiene, nel peggiore diventa un autocrate. Se invece si verificasse una coabitazione tra Presidenti (della Repubblica e del Consiglio) di opposto orientamento politico, all’instabilità politica si sovrapporrebbe quella istituzionale con un effetto di paralisi politica e di guerriglia permanente all’interno del potere esecutivo. Infine l’elezione popolare di un Presidente titolare di poteri di governo comporterebbe la rinuncia a un’istituzione di garanzia e di controllo come quella attuale che ha operato per impedire al bipolarismo coattivo e muscolare di stampo italiano di produrre effetti distruttivi.
Non resta quindi che tornare alla Costituzione salvaguardando la forma di governo parlamentare che si conferma come la più adatta ad affrontare situazioni di crisi grazie alla sua flessibilità. Certo, sarebbe opportuno introdurre istituti di razionalizzazione, volti a garantire non solo una migliore stabilità del Governo, ma anche un rafforzamento del ruolo del Parlamento, da vari anni ormai ridotto a strapuntino dell’esecutivo di cui si limita a ratificare le decisioni spesso senza neanche avere il tempo per discuterle, com’è avvenuto per le ultime leggi di bilancio e si verificherà anche per la prossima.