Nel vedere le immagini tragiche dell’Afghanistan riconquistato dai talebani – con esercito regolare dissolto e americani con alleati in fuga -, il pensiero corre a Julian Assange. Sembra doveroso, oltre che inevitabile, rimettere in ordine gli addendi di una vicenda davvero incresciosa. Sembra proprio un nuovo caso Dreyfus, il capitano francese accusato ingiustamente di spionaggio a cavallo tra Ottocento e Novecento. Accusa ingiusta, ma lentissima riabilitazione. La questione era diventata, infatti, assai scottante per l’ordine costituito. Le disavventure drammatiche vissute dal co-fondatore di WikiLeaks appaiono a questo punto surreali, oltre che assurde.
Dopo l’ammissione quasi spavalda dei disastri compiuti da parte dei conquistatori senza ritegno e senza gloria, il giornalista di origine australiana meriterebbe un riconoscimento, non certamente un’eventuale condanna a 175 anni di carcere. Il rischio è reale, visto che gli Stati Uniti hanno fatto ricorso in appello contro la decisione di sospensione temporanea – per il preoccupante quadro psicofisico dell’inquisito – dell’estradizione, assunta dalla Corte londinese dove è in corso il procedimento. E di che si tratta? I reati ruoterebbero attorno alle rivelazioni dei misfatti connessi alle guerre in Iraq e in Afghanistan, a partire dall’uccisione di civili e dai bombardamenti massivi. Insomma, WikiLeaks (grazie ad Assange e ai collaboratori: l’analista della Central Intelligence Agency, Cia, Edward Snowden e Il personaggio shakespeariano Chelsea Manning) ha da molto tempo squarciato il velo di silenzio attorno ad un ventennio di misfatti criminosi. Anzi. La precipitosa fuga da Kabul spiega perché non si poteva e non si doveva sapere. La violenza di stati che si ergevano a salvatori, ottenendo l’effetto opposto di ringalluzzire terrore e fondamentalismi, non andava resa pubblica. L’ideologia delle guerre contiene sempre la componente del segreto, funzionale per evitare opposizioni e critiche.
Ora che il Re è nudo, e mentre lo stesso presidente Biden è costretto a simulare il successo dell’insuccesso, è lecito chiedersi se una maggiore e diversa consapevolezza collettiva – al di là degli informati per mestiere o per collocazione – non sarebbe stata già un contropotere. La premessa per una presa di coscienza attiva. Si capisce, dunque, il motivo profondo per cui Assange è dannato. L’uomo che sa troppo, ci ammonì Hitchcock, passa parecchi guai. Ma poi se la cava bene, magari. I cattivi non sono eterni e il troppo è troppo. Attenzione, la rondine crudele rischia di fare primavera, se l’ex analista dell’intelligence d’oltre oceano Daniel Hale è stato condannato in Virginia a 4 anni di detenzione per aver dato notizia dei devastanti effetti dei droni in Yemen, in Somalia e in Afghanistan. Alle scelte sbagliate si risponde con la repressione di chi le racconta?
Il ministro degli esteri Luigi Di Maio è stato richiesto di un’informativa presso il parlamento su ciò che sta avvenendo in quell’area del mondo e sulla posizione italiana. Non è il momento, allora, di mettere finalmente all’ordine del giorno la mozione presentata da un gruppo di deputati (primo firmatario Pino Cabras) proprio sul caso Assange? Ed è importante prendere spunto dal convegno tenutosi lo scorso giugno al senato su iniziativa del Premio Mimmo Càndito e del presidente della biblioteca del senato medesimo Gianni Marilotti. Quest’ultimo, tra l’altro, parteciperà alla delegazione italiana che si recherà il prossimo ottobre a Londra per la ripresa del processo.
Il senso di tali iniziative è chiaro: controscrivere una storia, nella quale l’accusatore è diventato accusato e chi ha perpetrato le atrocità discetta tranquillamente di errori o difetti di strategia. Kabul non è Saigon, è stato giustamente sottolineato. Pure sul terreno dell’informazione. Allora i Pentagon Papers sugli orrori del Vietnam furono pubblicati e neppure il segretario della difesa Robert McNamara riuscì a frapporsi ai principi del primo emendamento della Costituzione di Washington sulla libertà di espressione. Guai a sottovalutare ciò che accade ad Assange. Una condanna sarebbe un precedente abnorme, dalle conseguenze imprevedibili: un colpo ferale al giornalismo di inchiesta. Una svolta. Ci sono prese di posizione della federazione nazionale della stampa e, timidamente, del sindacato internazionale dei giornalisti. Ma non basta.
Serve una straordinaria iniziativa democratica, che porti alla richiesta di un’auspicabile amnistia.
Il ministro degli esteri Di Maio, espressione di una forza politica che a suo tempo manifestò esplicite simpatie per l’attuale detenuto nella prigione speciale di Belmarsh, malato e a rischio di vita, non può tacere.
E neppure le sinistre hanno diritto al silenzio.