Della tragica fine della guerra degli Usa e della Nato in Afghanistan si è ormai detto (quasi) tutto. Ma a restare sullo sfondo è la questione fondamentale: perché non è possibile capire la fine di un conflitto se non si parte dal suo inizio. Che nel caso specifico fu una guerra ingiusta e fuori dal diritto internazionale.
Dal 15 agosto la bandiera dei Talebani sventola sul pennone del palazzo presidenziale di Kabul. In una sola settimana le istituzioni politiche e militari dello Stato fantoccio, messo su dagli americani e sostenuto dalla NATO, si sono squagliate come neve al sole.
Un esercito di 300.000 uomini, dotato di armi ed equipaggiamenti moderni si è arreso agli insorti senza colpo ferire. A ben vedere è stato meglio così perché ciò che era inevitabile, il cambio di regime, è avvenuto senza ulteriore spargimento di sangue.
Come in tutte le guerre l’epilogo della sconfitta è la fuga. Migliaia di persone sono accorse all’aeroporto di Kabul per cercare la salvezza attraverso l’unica via di fuga possibile, abbordando gli aerei pronti al decollo.
Siamo rimasti emozionati dalle immagini dell’assalto di folle di disperati ai velivoli che rollavano sulla pista o dalla drammatica scelta delle madri di gettare i loro bimbi al di là del filo spinato che recinge l’aeroporto.
E’ stata ricordata la fuga degli americani da Saigon con gli elicotteri, ma il paragone più calzante probabilmente è quello con i soldati tedeschi disperati che cercavano di fuggire da Stalingrado inseguendo sul campo di volo gli aerei mandati a prelevare i feriti.
Le emozioni hanno colto nel profondo, si sono susseguiti gli appelli per accogliere i profughi ed, in particolare, salvare le donne afgane che si sono più esposte nello spazio pubblico e che rischiano la vita dal ritorno al potere dei talebani, sebbene i nuovi vincitori si sono presentati al mondo, nella loro prima conferenza stampa con un volto moderato, promettendo che non ci sarebbero state vendette.
In questo contesto si è sviluppato un dibattito paradossale nei media e nelle forze politiche in cui tutti si dolgono delle modalità del ritiro delle truppe americane e della NATO, ma nessuno mette in discussione quelle scelte che hanno portato al disastro umano, economico e sociale di una guerra durata venti anni, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
L’unico che non si è meravigliato di quanto stava succedendo è stato Gino Strada, profondo conoscitore di quella realtà perché presente con Emergency in Afghanistan da oltre 20 anni. Nella sua ultima intervista concessa il giorno prima della sua morte (La Stampa, 13/08/2021), Strada parla senza peli sulla lingua:
“La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali. Il Consiglio di Sicurezza – unico organismo internazionale che ha il diritto di ricorrere all’uso della forza – era intervenuto il giorno dopo l’attentato con la risoluzione numero 1368, ma venne ignorato.”
Gino Strada aveva perfettamente ragione, non è possibile capire la fine di un conflitto se non si parte dall’inizio e dalle cause che l’hanno generato.
Oggi nessuno ricorda che dopo l’11 settembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU intervenne con tempestività per tutelare la sicurezza internazionale a fronte della minaccia terroristica.
In particolare, con la risoluzione n. 1373, il Consiglio di Sicurezza adottò una serie di stringenti misure volte a prevenire e a stroncare il terrorismo, prevedendo – fra l’altro – il congelamento dei fondi e di ogni risorsa economica che potesse essere usata dai terroristi e l’obbligo di tutti gli Stati di cooperare e scambiarsi le informazioni necessarie ed utili per la repressione del terrorismo. Pertanto l’attacco portato dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan a partire dal 7 ottobre 2001 non poteva avere alcuna giustificazione in termini di esercizio del diritto di legittima difesa, essendo il contrasto al terrorismo un mero pretesto che celava altri obiettivi.
Accecati dal servilismo verso gli USA e spinti dalla NATO i Paesi europei sono intervenuti nel conflitto, calpestando le loro tradizioni costituzionali e senza chiedersi dove stavano andando.
Il 7 novembre 2001 il Parlamento approvò la partecipazione italiana alla guerra con una mozione unitaria di maggioranza ed opposizione. Votarono contro soltanto le ristrette pattuglie dei Verdi, dei Comunisti italiani e di Rifondazione.
Non tutti furono d’accordo, sabato 10 novembre a Roma ci fu una manifestazione spontanea con la partecipazione di circa 100.000 persone che si opponevano alla guerra. Nell’occasione scrissi su Adista: “Il 7 novembre del 2001, con il voto del Parlamento che ha sancito la partecipazione del nostro paese alla guerra in corso nell’Afghanistan, l’Italia è stata calata nelle tenebre di un conflitto sanguinoso del quale non si intravede alcuno sbocco. La guerra non è solo la notte della politica, è anche la notte della democrazia.”
In questo tempo triste purtroppo è facile essere profeti di sventura.