Genova per noi
Di Domenico Gallo
«La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale.»
Così si esprimeva Amnesty International in un rapporto del 21 luglio 2006 che faceva il punto, a 5 anni di distanza, degli straordinari avvenimenti verificatisi a Genova dal 19 al 22 luglio 2001 in occasione del vertice del G8.
Le incredibili violenze delle forze di polizia contro il corteo pacifico ed autorizzato delle tute bianche, la “macelleria messicana” compiuto alla scuola Diaz, le torture “turche” praticate nella caserma di Bolzaneto contro centinaia di manifestanti arbitrariamente arrestati, sono state ampiamente evidenziate dai documenti video e fotografici dell’epoca, dalle numerose testimonianze raccolte dalla stampa ed infine indagate nei procedimenti giudiziari penali, civili e contabili che ne sono seguiti.
In particolare le sentenze definitive della Cassazione (n. 38085/2012 e n.37088/2013) e quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo (vedi caso Cestaro c/o Italia, 7/4/2015 e Blair ed altri c/o Italia, 26/10/2017) hanno fissato in modo inoppugnabile la “verità giudiziaria” di quella che fu una non breve e non indolore sospensione dello Stato costituzionale di diritto.
Per una rievocazione cinematografica rimane fondamentale il film di Daniele Vicari: Diaz – Don’t Clean Up This Blood, (2012).
A venti anni di distanza il problema non è solo rievocare perché non si perda la memoria di questa vicenda che ha proiettato un cono d’ombra sul percorso della democrazia in Italia, ma cercare di comprendere quali lezioni si possano trarre da quei fatti e in che misura quei fatti parlino all’attualità.
Questa vicenda si sviluppa in un contesto internazionale che vede l’instaurazione di un nuovo ordine economico sociale trainato dal Trattato di Marrakech (1994) che aveva dato vita all’Organizzazione mondiale del Commercio (OMC/WTO), fondata sul dogma della competizione globale nell’ottica del massimo incremento delle merci scambiabili.
Contemporaneamente si sviluppò a livello internazionale un diffuso movimento che contestava il carattere insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale delle scelte iperliberiste che guidavano il processo di globalizzazione economica.
Questo movimento ebbe il suo battesimo a Seattle (negli USA) dove si svolse dal 30 novembre al 2 dicembre 1999 la terza conferenza interministeriale dell’OMC che avrebbe dovuto lanciare il più straordinario processo di liberalizzazione economica della nostra epoca, non a caso denominato millennium round.
In vista della Conferenza di Seattle oltre 1387 associazioni non governative di base di 96 paesi avevano firmato un appello (aprile 1998) per chiedere di arrestare il processo di liberalizzazione in atto al fine di avviare una valutazione delle conseguenze, sul piano sociale e ambientale, dei processi di liberalizzazione già avviati.
La straordinaria mobilitazione che ne seguì provocò il fallimento totale della Conferenza che si chiuse senza neanche una dichiarazione finale. In questo contesto anche in Italia si sviluppò un forte movimento di base che si diede appuntamento a Genova in occasione del G8 per rappresentare ai Grandi l’esigenza di un cambio di rotta nei processi di globalizzazione in atto.
In concomitanza con questi eventi in Italia si insediò l’11 giugno del 2001 un nuovo Governo (II Governo Berlusconi) composto da forze politiche portatrici di culture estranee, se non opposte, ai valori costituzionali.
Quindi Genova per loro rappresentò l’occasione per consolidare il nuovo ordine economico internazionale e inaugurare un nuovo modello di gestione dell’ordine pubblico e di repressione delle opposizioni funzionale al nuovo ordine.
Nell’occasione a Genova si sperimentò anche l’uso del Pubblico Ministero come “avvocato della polizia”, come dimostrò l’acritico adagiarsi della Procura sulle richieste cautelari della polizia. In ordine agli arresti effettuati la notte del 22 luglio, l’ufficio del GIP rigettò 66 richieste di convalida su 78, ed applicò una sola misura di custodia in carcere negli altri dodici casi. I giudici genovesi non solo rigettarono le richieste di convalida ma trasmisero gli atti al P.M perché si procedesse per le lesioni evidenti sul corpo degli arrestati.
Il modello Genova di gestione dell’ordine pubblico è fallito e non si è più ripetuto perché il sistema politico non è stato in grado di garantire l’impunità per gli abusi compiuti. Ciò non è dipeso da misure di risanamento sviluppate all’interno del circuito politico-amministrativo. Al contrario molti dei funzionari di polizia implicati negli abusi, lungi dall’essere censurati, hanno beneficiato di generosi avanzamenti di carriera, mentre il Parlamento ha bocciato la proposta di una Commissione d’inchiesta che, almeno, avrebbe portato alla luce le direttive date e le relative responsabilità politico-amministrative.
Ancora una volta, dopo la stagione del terrorismo e delle “stragi di Stato” come Piazza Fontana, la tenuta della democrazia nel nostro Paese si è retta su un unico pilastro: il sistema di indipendenza della magistratura come delineato dai padri costituenti.
E’ un pilastro che dobbiamo mantenere intatto se vogliamo conservare i nostri diritti.