Si vuole introdurre in Costituzione un’esplicita previsione di tutela ambientale. Ci si interroga però sulla reale forza innovatrice di una simile revisione. Sarebbe, infatti, un errore cambiare la Costituzione perché nulla cambi.
La sfida riguarda allora il «modello di sviluppo»: detto in sintesi, passare da un’idea di sviluppo basato sul primato economico-finanziario, a quella di uno sviluppo ecosostenibile come priorità. Un vero e proprio cambiamento di paradigma.
Per conseguire quest’obbiettivo non basta inscrivere in Costituzione un generico «diritto all’ambiente», è anche necessario affermare uno specifico dovere di rispettare l’ecosistema da parte di tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico, siano essi pubblici ovvero privati. Chiediamoci allora se il disegno di legge approvato dal Senato risponde – in tutto o in parte – a questa prospettiva di radicale rovesciamento.
Le modifiche proposte coinvolgono due articoli. Si aggiunge la tutela ambientale a quella del paesaggio (art. 9); si pongono l’ambiente e la salute tra i limiti espressi all’attività economica dei privati, assegnando inoltre alle leggi il compito di indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini ambientali, oltre che sociali (art. 41).
La prima modifica (l’aggiunta della tutela ambientale a quella del paesaggio) non cambia granché, si limita infatti a recepire un principio di fatto già presente nel nostro ordinamento giuridico. La normativa in materia ambientale, ma anche un’ampia giurisprudenza ordinaria, costituzionale e sovranazionale, hanno da tempo affermato l’esistenza di un diritto soggettivo all’ambiente.
Non sempre però questo diritto riesce ad affermarsi e a prevalere su altri diritti, quelli d’ordine economico e sociale in particolare.
Ecco perché sarebbe necessario – se si vuole realmente cambiare modello di sviluppo – aggiungere un comma di chiusura del seguente tenore: «È compito della Repubblica promuovere lo sviluppo ecologico e ambientale anche in ambito sociale ed economico e realizzare le condizioni necessarie a rendere effettivo tale diritto».
Nulla di più, perché in Costituzione si scrivono principi e non regole; ma anche nulla di meno, perché i principi costituzionali devono avere una propria forza prescrittiva che si impone alla legislazione ordinaria e alle decisioni dei giudici.
Qualora tra i principi fondamentali della Costituzione si dovesse affermare una esplicita «superiorità in grado» dell’ambiente rispetto alle libere dinamiche sociali ed economiche diventerebbe poi difficile adottare una normativa a scapito dell’equilibrio eco- ambientale.
Si verrebbe, infatti, a modificare il bilanciamento tra diritti, sicché le norme che non dovessero rispettare l’ambiente sarebbero, nella gran parte dei casi, suscettibili di essere dichiarate illegittime.
È noto in effetti che il sacrificio del bene ambientale non avviene normalmente in sé (non si inquina tanto per inquinare) ma per favorire altri interessi. È quando il diritto all’ambiente si scontra con altri diritti anch’essi costituzionalmente protetti – come quello d’iniziativa economica ovvero quello al lavoro – che la tutela ambientale ha spesso la peggio, soccombendo nell’opera di bilanciamento che viene effettuata prima dal legislatore in sede politica, poi dalla Corte costituzionale in sede di sindacato di legittimità.
Il caso più noto è quello dell’Ilva, ma in molti altri casi si sono giustificare produzioni altamente inquinati, si è ammessa la prosecuzione di incentivi per attività nocive alla salute e all’ambiente, non si è ostacolato l’inizio di attività prive di verifiche preventive di compatibilità o contrarie ai principi di precauzione, in nome di diritti e interessi che si ritiene di dover tutelare anche se questi si pongono in conflitto con l’ambiente.
o scopo della riforma dovrebbe essere quello di impedire tutto ciò, stabilire un diverso equilibrio rafforzando nel bilanciamento il valore della tutela ambientale, cambiare le priorità e indicare – in questo modo – un diverso «modello di sviluppo» rispetto all’attuale.
Se fosse la Costituzione direttamente a prescrivere una tutela privilegiata dell’ecosistema che debba imporsi anche in ambito economico e sociale, la Corte, e prima ancora il legislatore, non potrebbero più disattendere le istanze ambientali.
Non potrebbe più, ad esempio, il nostro giudice di costituzionalità affermare che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri». È stato così che la Consulta ebbe a motivare la propria decisione nel caso dell’Ilva (sent. n. 85 del 2013), legittimando la prosecuzione dell’attività inquinante dello stabilimento di Taranto.
La modifica proposta all’articolo 9 rafforzerebbe e chiarirebbe altresì la portata delle integrazioni che si vogliono introdurre all’articolo 41. In questo caso – s’è detto – si vuole aggiungere l’ambiente e la salute tra i limiti espressi all’attività economica privata, nonché indirizzare tale attività (anche quella pubblica) a perseguire finalità «sociali e ambientali».
Sono modifiche tutt’altro che secondarie. Il vero rischio è che non siano assunte nella loro piena forza normativa, come spesso capita ai principi costituzionali che rimangono inattuati ovvero come accade a prescrizioni pur puntuali che però vengono interpretate minus quam valeat. Un’esplicita indicazione sul primato dello sviluppo eco-ambientale (e non solo – come va invece di moda – genericamente «sostenibile») posta tra i principi fondamentali della Costituzione, fornirebbe una solida «copertura» alla interpretazione magis ut valeat dell’ambiente come limite e come indirizzo all’attività economica privata e pubblica così come indicato nell’ipotesi di modifica dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
La «rivoluzione green» di cui tutti parlano comincerebbe allora a passare dalle parole ai fatti, iniziando dalla forza propulsiva della Costituzione. Questo Parlamento è in grado di assumere una così impegnata prospettiva?