Questa volta non si può dire «all’ovest niente di nuovo». I progetti di riforma fiscale del presidente statunitense Joe Biden spingono persino i commissari europei – lo ha fatto apertamente Paolo Gentiloni – a parlare di «riforma fiscale globale».
In effetti la nuova Amministrazione statunitense ha avanzato due proposte di forte impatto. La prima costringerebbe le multinazionali a pagare le tasse in base a quanto fatturano in ogni paese.
IL CAMBIAMENTO sarebbe considerevole, poiché attualmente Alphabet (cui fa capo Google), Apple, Microsoft. Amazon, per citare quelle più note che hanno aumentato a dismisura i loro profitti in questa crisi pandemico-economica, pagano le tasse ove sono domiciliate, cioè nei paesi che offrono vantaggi fiscali. La seconda concerne l’introduzione di una minimum tax globale al 21%. L’aliquota di per sé non è sconvolgente.
Né dovrebbe essere posta in alternativa alla tassazione degli utili effettivamente realizzati dalle multinazionali, né alla Web tax, alla Carbon tax o alla giusta riproposizione della Tobin tax sui movimenti di capitali a scopo speculativo.
ATTUALMENTE sono almeno 35 i paesi, fra cui diversi europei, che applicano aliquote fiscali tra lo zero assoluto e il 12,5%, cui dobbiamo aggiungere la notevole differenza che spesso esiste tra l’aliquota ufficiale e quella realmente praticata, a causa di deduzioni, detrazioni e accordi contro la doppia imposizione fiscale che finiscono per ridurre al minimo la tassazione. Biden ha prospettato l’intenzione di elevare le imposte sulle società al 28%, dal 21%, dove le aveva precipitate Trump che le aveva trovate al 35%. Un recupero solo parziale ma già tale da scatenare le ire delle corporations statunitensi, dei repubblicani e anche di qualche democratico particolarmente «moderato». Biden deve perciò fronteggiare la concorrenza che permette ai paradisi del dumping fiscale di attirare capitali.
Giustamente in un loro appello, Romano Prodi e Vincenzo Visco chiedono a Draghi di sostenere pubblicamente e nelle sedi opportune, avendo oltretutto la presidenza del G20, la proposta americana. Mentre l’altro ieri a Bruxelles è stato presentato un pacchetto di norme per dotare la Ue di «un unico codice di regole sull’imposizione delle società» per disboscare la giungla fiscale. Si punta a un accordo di principio nel prossimo G20 di luglio a Venezia. Ma già si levano alti lai da parte di chi ha sempre usato la tassazione come un’arma di competizione economica, come l’Irlanda e il Lussemburgo. Il tema fiscale richiede l’unanimità dei 27 paesi, ma una via d’uscita c’è a volerla imboccare: l’art. 116 dei Trattati permette decisioni a maggioranza qualificata in presenza di distorsioni del mercato unico, nient’affatto difficili da dimostrare. Ma ai passi in avanti in Europa non corrisponde un uguale determinazione nel nostro paese.
MARIO DRAGHI aveva sottolineato con grande enfasi che non si può fare una riforma fiscale a spizzichi e bocconi, e che dunque bisognava insediare una commissione di esperti, come successe nei primi anni settanta con Bruno Visentini e Cesare Cosciani. Ma nella stesura del Pnrr i compiti della suddetta commissione vengono limitati alla stesura tecnica dei decreti attuativi derivanti dalla legge delega che il Governo presenterà entro il 31 luglio 2021. In questi giorni però si apprende che il Ministero del Tesoro più che installare una commissione di esperti preferirebbe avvalersi semplicemente del lavoro di sintesi che la Commissione bicamerale per l’indagine conoscitiva sulle tasse presenterà a fine giugno. Nel frattempo i partiti vengono sollecitati a presentare le loro proposte sull’Irpef.
Quindi gli interessi – e qui ce ne sono parecchi in gioco – hanno avuto la meglio sulle competenze. Qui sì «niente di nuovo». Resta difficile immaginare una legge organica come esito della mediazione fra diverse proposte. Sembra infatti che una flat tax secca non verrà accettata, ma neppure una soluzione di «un’aliquota continua» alla tedesca capace di evitare «gradoni» tra un livello di reddito e l’altro. Da un lato Pd e M5stelle vogliono una riduzione del numero delle aliquote – che come si sa sono solo cinque – con la preoccupazione di rendere meno brusco e traumatico il passaggio dal secondo al terzo scaglione, comportando però un effetto di appiattimento della progressività. Mentre sull’altro lato Lega e Fratelli d’Italia non rinuncerebbero del tutto alla flat tax, volendola applicare ai «redditi incrementali»: il guadagno in più rispetto all’anno precedente, verrebbe tassato al 15%. In altre parole più aumenta il reddito e meno si è tassati. Una spinta alla scalata sociale.
LE DUE POSIZIONI, seppure con modalità diverse, impedirebbero una rigorosa applicazione dei criteri di progressività. La ricerca del consenso dei ceti medi avrebbe la meglio sul rispetto della Costituzione. Si dice che nel 2022 avremo una nuova Irpef. Ma se le cose restano così si tratterebbe di una controriforma che affosserebbe ogni anelito di giustizia fiscale persino in contrasto con gli spiragli che si aprono in Europa