Il Senato approva un’ampia modifica del proprio regolamento a pochi giorni dal probabile scioglimento. Un sussulto in punto di morte, a conclusione di una legislatura in cui il Senato suicidato è stato resuscitato – senza averne merito – dal voto del popolo sovrano.

In sintesi, si tratta di norme finalizzate, come dice il relatore Calderoli, a un “parlamento decidente”. Formula utilizzata da chi confonde il parlamento con un parlatoio chiacchieroso e futile. Siamo di fronte per una parte a una manutenzione che si può definire ordinaria, come per l’esclusione degli astenuti dal calcolo dei voti, in armonia con la Camera, o per la richiesta del numero legale in apertura di seduta. Ma altri interventi vorrebbero essere più ambiziosi.

Tale è il caso per le norme volte a contrastare la frantumazione dei gruppi e i cambi di casacca, giunti a cifre assurde. Poiché l’art. 67 Cost. impedisce di congelare il parlamentare in uno stesso gruppo per la legislatura, si introducono disincentivi come la perdita del finanziamento al gruppo o la cessazione dalle cariche ricoperte.

È possibile che in tal modo si riduca la transumanza. Non a caso, protestano i verdiniani, che coprono il vuoto politico con la mobilità sulla scacchiera parlamentare. Ma in termini generali i cambi di casacca riflettono una debolezza propria del sistema politico, prima che dell’istituzione. Intervenendo su questa si cura il sintomo, mentre la malattia rimane e probabilmente si manifesta in altro modo. Ad esempio, moltiplicando i casi di dissenso da un gruppo in cui si rimane per sola convenienza. Come dice Calderoli nella replica, non si può “regolamentare quello che rappresenta il dissenso o la minoranza all’interno dello stesso partito”. Giusto. Ma proprio per questo non si può nemmeno impedire.

Possibili insidie emergono invece dalle innovazioni che toccano il procedimento legislativo, in specie prevedendo che “di regola” – e salvo eccezioni – le leggi sono approvate con il procedimento redigente o quello deliberante. I due procedimenti vedono la riduzione (redigente) o l’azzeramento (deliberante) del ruolo dell’aula. E qui rileva che l’aula è il luogo del confronto pubblico, il punto di massima visibilità. Concentrare il lavoro nelle commissioni significa rendere la formazione della legge più opaca, sottraendola in più o meno larga misura al controllo dell’opinione pubblica e a un esercizio efficace della responsabilità politica. Si aggiunga che per tornare in aula è necessaria per l’art. 72 Cost. la richiesta del governo, di un decimo dei componenti dell’assemblea o di un quinto della commissione. Numeri che una forza politica minore potrà non avere, mentre quelle maggiori o il governo decideranno se mantenere o meno la produzione legislativa nella relativa oscurità delle commissioni.

È un orientamento fondato sulla premessa che sia essenziale avere un parlamento in cui i lavori durino qualche ora in meno, piuttosto che un parlamento che dia piena e aperta voce al paese. Non si coglie il senso profondo di una efficace rappresentatività dell’istituzione. Non a caso, l’art. 72 Cost. definisce come procedimento legislativo “normale” quello di esame e di approvazione diretta da parte della camera. La normalità coincide con la centralità dell’aula. Il regolamento dispone esattamente il contrario: meno si va in aula, meglio è.

Ancora una volta questo parlamento si mostra allergico alla Costituzione. Inoltre, di tante normette anti-ostruzionismo e funzionali al “parlamento decidente” non si avvertiva in realtà alcun insuperabile bisogno. Con le regole fin qui vigenti una maggioranza solida poteva e potrebbe senza affanno governare i lavori e condurre in porto qualsiasi battaglia politica. Per le norme e le prassi consolidate un vero ostruzionismo non è più possibile, da tempo. Laddove si manifestano difficoltà, esse vengono dall’interno della maggioranza. Mentre è già strutturale la dominanza dell’esecutivo sulla produzione legislativa.

Per Calderoli le nuove regole faranno del Senato una Ferrari. Piuttosto, la politica che in esso vivrà deciderà se invece è una carretta, non essendo i benefici in alcun modo decisivi. È difficile sfuggire alla sensazione che gli interventi fatti siano segnali non di forza, ma di debolezza dell’istituzione, essenzialmente ad pompam, come avrebbero detto gli antichi. E il termine va bene, in fondo, anche ai moderni. Trattandosi, ovviamente, di pompe funebri.

 

Massimo Villone su Il Manifesto del 21 dicembre 2017