In Sicilia, tutto secondo copione. Vince il centrodestra, M5S è per distacco il primo partito ma perde la carica di governatore, Pd (al 13%) e alleati arrancano a distanza, la sinistra di Fava supera a fatica lo sbarramento del 5%, l’assenteismo va oltre il 50%. Il messaggio è chiaro. Se tutto rimane com’è, nel voto 2018 i protagonisti saranno – come si è affrettato a certificare Berlusconi – il centrodestra unito e M5S. Al Pd di Renzi, e al centrosinistra in tutte le declinazioni, solo il ruolo di comparse, per la prima volta in oltre venti anni. Bisogna cambiare.
Nel Pd l’effetto è stato deflagrante. Si colgono echi di un confronto ormai aperto sulla leadership e sulle alleanze. Ma è in grado il Pd in tempi brevissimi di ridefinirsi come partito e offerta politica?
È difficile. I guasti di Renzi e del renzismo sono profondi. La rottura con i mondi di riferimento, le politiche divisive, le continue forzature, le sconfitte in momenti decisivi come il referendum costituzionale e non solo, la perdita di identità, la diaspora dei militanti, la perdita di figure storiche e ancora capaci di aggregare consenso come Bassolino, l’arroccamento in chiave di potere personale del leader, l’uso spregiudicato del partito, la noncuranza per le best practices politiche e i conseguenti danni alle istituzioni, hanno lasciato sul Pd e sulla storia del paese segni che non si cancellano facilmente o in tempi brevi.
Inoltre, Renzi controlla il partito, e trova sponda nella nuova legge elettorale. Un Pd (lista o coalizione) al terzo posto vincerebbe solo una manciata di collegi uninominali, eleggendo gran parte dei suoi parlamentari nei listini bloccati. Questo consentirebbe al segretario di governare le candidature e di assicurarsi la fedeltà degli eletti. Il potere personale sarebbe salvo, pur se con numeri parlamentari lontani da quelli dati dall’incostituzionale Porcellum nella legislatura che si chiude.
Ci interessa la sorte del Pd o di Renzi? Non di per sé. Ma ci interessa la possibilità che la questione meridionale sia rimessa nell’agenda politica del paese. E allora la domanda è: lo farebbe un centrodestra vincente nel 2018? Anche qui pesa il Rosatellum 2.0, che con la quota di collegi maggioritari consegna alla Lega una posizione dominante nel Nord e la golden share nell’eventuale futuro governo. Un risibile Salvini celebrando la vittoria vagheggia di una marcia di liberazione del Sud. Ma non saranno certo gli slogan a bilanciare i Maroni e Zaia dei referendum nel lombardo-veneto, e a combattere la divaricazione territoriale e le diseguaglianze crescenti.
Eppure, il Sud potrebbe essere cruciale nel voto 2018. Se assumiamo un Nord consegnato al centrodestra, e un Centro – un tempo roccaforte della sinistra – con i contendenti in equilibrio, decisivo sarà il voto meridionale. Qui potrebbe aprirsi una prospettiva, anche per il Pd.
Il problema è che nel Sud il Pd non è più un vero partito organizzato e radicato nel territorio, espressione di una domanda sociale e di bisogni collettivi. È piuttosto una aggregazione notabilare di amministratori locali ed esponenti a vario titolo nelle istituzioni, attorno ai quali si raggruma un consenso di tipo personale, amicale, clientelare, familistico. Così non si produce un progetto politico credibile e spendibile in una competizione nazionale. E anche qui troviamo una interazione negativa con la nuova legge elettorale, con il suo doppio sbarramento: 3% per accedere alla assegnazione dei seggi, 1% per cedere i propri voti alle liste della coalizione che superano il 3%. Probabilmente, sulla scheda elettorale 2018 troveremo torme di notabili, e di micro-liste a caccia spasmodica dell’ultimo voto. Con tutta la frammentazione e l’ulteriore degenerazione che questo comporta.
Il voto siciliano nemmeno reca incoraggiamento a sinistra del Pd. Fava non decolla con una campagna centrata sulla legalità, e non riporta alle urne chi se ne era allontanato. Un voto di protesta in uscita dal Pd pare vada a Cancelleri attraverso il voto disgiunto, probabilmente con l’argomento del voto utile. E dunque è indispensabile fare di più e meglio, in termini di identità, progetto politico e comunicazione, per esserci e contare nel 2018. Quanto a M5S, aspettiamo di capire se ritiene che esista, e in che termini, una questione meridionale.
Lasciamo dunque perdere le sceneggiate sul presidente Grasso o su un mancato confronto televisivo. L’ultimo Renzi si augurava sportivamente che in Sicilia vincesse il migliore. Sappiamo com’è andata. Per il prossimo giro, meglio augurarsi di non essere il primo degli ultimi.
Massimo Villone su La Repubblica Napoli dell’8 novembre 2017