L’ultimo Renzi ci comunica che di legge elettorale parlerà con Grillo e Berlusconi. Questo non garantisce che una legge si faccia davvero, nonostante gli accorati appelli di Mattarella. Ma due punti sono chiari. Anzitutto, la sinistra fuori del Pd non è tra le parti contraenti. Inoltre, qualunque intervento sarà nell’interesse dei soggetti politici più forti.
Nulla di nuovo. Da molti anni sentiamo il mantra della semplificazione del sistema politico. Come dimenticare il trionfalistico discorso del 14 maggio 2008 alla Camera dei deputati, in cui Veltroni – rovinosamente sconfitto – magnificava l’innovazione introdotta dal Pd con la corsa (quasi) solitaria? Di certo, l’unica vera vittima della semplificazione è stata la sinistra.
Ovviamente, il Pd non è un partito di sinistra. Lo sa chi ha militato nel Pds e nei Ds, e vede oggi la marginalità dei pochi antichi compagni rimasti nel Pd. Lasciamo ai politologi la questione se il Pd sia diventato PdR (partito di Renzi). Può darsi che le sconfitte – tra cui decisiva quella nel referendum del 4 dicembre – aprano a scenari diversi, ma in nessun caso di sinistra. Lo dimostrano le grandi manovre in atto e i balbettii della minoranza. Il Pd è oggi un partito sostanzialmente di centro, con qualche pulsione emotiva a sinistra.
Questo pone sulla sinistra fuori del Pd una grande responsabilità, che non è difendere una antica e nobile storia. Piuttosto, è portare con forza nelle istituzioni una voce che voglia decisivamente cambiare gli indirizzi del Paese e le scelte di governo. Questa responsabilità può essere assolta, ma a certe condizioni.
La prima. Spetta alla sinistra mettersi in condizione di superare l’asticella con qualsiasi legge elettorale. Questo implica – come si sente dire – un consenso a due cifre. Per tale obiettivo la parola chiave è: unità, che non è giustapposizione di sigle e bandiere. Solo così può nascere a sinistra un quarto polo, in grado di spostare l’asse del sistema politico. L’alternativa è scomparire, in tutto o in parte.
La seconda. Per le due cifre non basta strappare manciate di consensi a M5s, al centrodestra, o allo stesso Pd. Si raggiungono solo guadagnando nell’area del non-voto, e tra i giovani. Si può fare, mobilitando tutta l’organizzazione di cui si dispone su un progetto politico chiaro, con poche essenziali priorità, che dica dove, come e con quali risorse si vuole cambiare rotta. Avere in campo facce nuove è utile, ma non basta. E i tempi sono in ogni caso strettissimi.
La terza. Nella prossima campagna elettorale non si faranno prigionieri. Il Pd cercherà di fare terra bruciata alla propria sinistra, dividendo il campo, usando l’arma assoluta del voto utile, facendo sponda sul governo. Si lasci dunque l’illusione di una campagna fatta strizzando l’occhio al Pd, e anticipando come unico obiettivo la futura coalizione col Pd. Così si può solo perdere. Quel che sarà poi lo dirà il voto.
Ovviamente rimane la necessità di puntare a una legge elettorale che sia la migliore possibile. Gli argini posti dalla Corte costituzionale (sentenze 1/2014 e 35/2017) a presidio della rappresentatività delle assemblee e del voto libero e uguale si mostrano fragili. È per questo che il Coordinamento per la democrazia costituzionale si batte per una legge di impianto proporzionale, e un’assemblea di eletti e non di nominati. La domanda è: abbiamo bisogno di un parlamento ampiamente rappresentativo, in cui sia forte la voce della sinistra?
Certamente sì. Sui problemi epocali che abbiamo di fronte – il lavoro, i giovani, le diseguaglianze crescenti, i migranti, le pressioni securitarie, le nuove tecnologie e l’impatto sulla vita individuale e collettiva, l’ambiente – c’è una risposta di destra e una di sinistra. Non sappiamo quale prevarrà. Ma di certo vogliamo essere in campo.
Massimo Villone su Left del 26 agosto 2017