Contributo di Domenico Gallo
1. Non una revisione, una sostituzione.
Dalla semplice lettura del titolo: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” ci rendiamo conto che la riforma che il popolo italiano sarà chiamato ad approvare o a rifiutare con il referendum prossimo venturo non è una semplice legge di revisione della Costituzione. Si tratta di un intervento che modifica o sostituisce ben 47 articoli, oltre un terzo dell’intero corpo normativo, realizzando in questo modo la sostituzione dell’ordinamento democratico previsto dalla Costituzione del 48 con un altro ordinamento, ispirato a principi e ragioni affatto differenti da quelle che avevano guidato i padri costituenti. Si tratta, pertanto, di un progetto ambizioso simile a quello che in Francia nel 1958 determinò il passaggio dalla IV alla V Repubblica con la riforma De Gaulle.
2. Un metodo inaccettabile: la Costituzione di minoranza.
La prima critica che si deve muovere alla riforma costituzionale concerne il metodo con cui è stata approvata. La Costituzione della Repubblica italiana fu approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947 con 458 voti favorevoli e 62 contrari. I deputati dell’Assemblea costituente furono eletti con sistema proporzionale, rappresentavano tutte le componenti politiche sociali e culturali presenti nel popolo italiano e vararono la Costituzione con un accordo quasi unanime. Si trattava di edificare le mura della casa comune per unire il popolo italiano e trasformarlo in una comunità politica unita da un destino comune. La nuova Costituzione fu scritta ad iniziativa e ad impulso esclusivamente del Parlamento, senza che il Governo potesse mettervi becco. Quando l’Assemblea Costituente discuteva del progetto della Costituzione i banchi del Governo rimanevano vuoti. Tutto il contrario di quello che è successo quest’anno con l’approvazione della revisione costituzionale. Quando il capo del Governo si è presentato in Parlamento l’11 aprile per concludere la discussione finale sulla sua nuova Costituzione, i banchi del Parlamento erano vuoti, mentre il banco del Governo era strapieno. Questo dovrebbe far riflettere sulla totale delegittimazione politica del percorso che ha portato una maggioranza risicata, frutto di un Parlamento eletto con una legge maggioritaria dichiarata incostituzionale (Corte Cost. sentenza n.1/2014), ad approvare sotto dettatura dell’esecutivo la più pesante riforma della Costituzione della storia repubblicana.
3. La Costituzione è un bene comune: non appartiene ad un partito o ad un Governo
La riforma della Costituzione dovrebbe fiorire da un dibattito collettivo, aperto e condiviso perché in essa sono scolpite le basi della convivenza civile. Le Costituzioni si modificano infatti con assemblee costituenti, in ogni caso con Parlamentari eletti con sistemi proporzionali a seguito della più ampia condivisione tra le forze politiche. Le Costituzioni sono fatte per unire un popolo, per questo non possono essere imposte da una fazione politica.
La Costituzione italiana ha unito il popolo italiano costituendolo in comunità politica che si riconosce in un destino comune. Quel destino che i padri costituenti vollero garantire alle generazioni future, ancorandolo ad una serie di beni pubblici repubblicani, quali: l’eguaglianza, la pace, il pluralismo, l’istruzione, la solidarietà sociale, la salubrità dell’ambiente, la dignità del lavoro, che sono tutt’ora di straordinaria attualità anche se da molti anni languono nei palazzi della politica, quando non sono apertamente ripudiati. Grazie alla Costituzione, il popolo italiano è rimasto unito anche quando si sono verificate drammatiche rotture storiche, come la guerra fredda. E’ la Costituzione che ha impedito che la guerra fredda ci trascinasse nella tragedia della guerra civile, com’è avvenuto in altri Paesi. E’ la Costituzione che, attraverso l’indipendenza della magistratura, ci ha salvato da sbocchi autoritari ed ha tenuto unito il popolo italiano nelle drammatiche contingenze della strategia della tensione e del terrorismo. Adesso che, per le vicende della globalizzazione e delle crisi politiche del dopo 89, si sono sfaldate le grandi organizzazioni di coesione sociale, come i sindacati, i partiti e le associazioni di massa, nella società liquida in cui l’individualismo imposto dal mercato trionfa, la Costituzione è l’unico baluardo che mantiene l’unità del popolo italiano, che ci consente di essere ancora un comunità politica unita da un destino comune in cui tutti possiamo riconoscerci.
4. Le patologie istituzionali: quelle reali… e quelle immaginarie!
Per le ragioni che abbiamo detto, se la nuova Costituzione sarà confermata dal referendum, le istituzioni non saranno più la casa comune del popolo italiano. In effetti già adesso non godono di buona salute, perchè le leggi elettorali hanno prosciugato i canali di collegamento fra il Parlamento e la società, fra la società civile e la società politica, che si è resa autonoma dal popolo sovrano ed è diventata autoreferenziale attraverso la manomissione dei meccanismi della rappresentanza politica. Una crisi profonda testimoniata, a tacer d’altro, dalla totale perdita di fiducia degli italiani nei partiti politici (3%) e nel Parlamento (8%), tanto che nel linguaggio corrente la rappresentanza politica viene percepita come una casta. Solo che per curare la malattia ci viene proposto di uccidere il malato. La cura suggerita con questa riforma è peggiore del male. La ricetta proposta è sbagliata perché è rivolta a risolvere delle patologie immaginarie.
5. Il convitato di pietra: la riforma elettorale.
Sebbene taciuto, in realtà esiste un legame inestricabile fra la riforma elettorale e quella costituzionale, l’una sorregge e giustifica l’altra e viceversa, e tutte e due insieme concorrono a delineare il nuovo volto della democrazia italiana che verrà fuori dal processo delle riforme.
Anzi la riforma costituzionale è tributaria della riforma elettorale, costituisce un adattamento della Costituzione formale alle esigenze imposte dal nuovo sistema elettorale, sciogliendo dei nodi altrimenti inestricabili. A questo punto dobbiamo chiederci: a cosa servono le elezioni.
La democrazia – scriveva Schumpeter nel suo saggio del 1942, Capitalismo, socialismo e democrazia – è “lo strumento per giungere a decisioni politiche , in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare”.
Secondo questa concezione, la vera funzione del voto è quella di consentire ai cittadini di scegliersi un governo “direttamente o attraverso un corpo intermedio che a sua volta genererà un esecutivo”. Ciò che davvero conta è che dalle elezioni emerga l’indicazione chiara ed univoca di un Governo e del suo capo. Insomma la democrazia, secondo questa concezione che oggi è ritornata in voga, si risolve nel diritto dei cittadini di scegliere da chi vogliono essere comandati. La riforma elettorale, italicum, è perfettamente coerente con questa visione. Il giorno stesso del voto sapremo a quali individui è stato conferito il potere di prendere le decisioni politiche ed è irrilevante che siano prescelti da una minoranza di elettori. Non è questa la democrazia che i padri costituenti avevano promesso al popolo italiano quando scrivevano che la sovranità spetta al popolo e che tutti i cittadini hanno diritto di concorrere a determinare la politica nazionale. Nella loro ingenuità pensavano che il popolo dovesse contare veramente qualcosa.
Se questa è la concezione della democrazia che emerge dalla riforma elettorale, allora è evidente che la Costituzione formale deve essere modificata per raccordarla a questo sistema.
La prima cosa che si deve eliminare è che ci siano due Camere legislative elette direttamente dal popolo. Non possiamo più permettercelo, perché nessuna alchimia elettorale può garantirci che gli elettori investiranno del potere di governare lo stesso gruppo di individui sia alla Camera che al Senato. Col sistema proporzionale per oltre 40 anni ci sono state maggioranze omogenee sia alla Camera che al Senato, però se si taroccano i risultati del voto non possiamo più aspettarci che ci sia omogeneità politica. Poiché il premio di maggioranza si vince o si perde anche per un solo voto, avere due Camere elettive sarebbe un azzardo che potrebbe portare all’ingovernabilità più assoluta se il premio venisse assegnato alla Camera dei Deputati ad una lista ed al Senato ad un’altra lista concorrente. Questo spiega perché l’abolizione del Senato elettivo venga considerato – dai sostenitori delle ragioni del si – una risposta efficace ad una emergenza istituzionale. Dove sta l’emergenza? E’ tutta qui, se si vuole la democrazia dell’investitura, il Parlamento non può essere diviso in due Camere politiche, bisogna assolutamente eliminare una Camera elettiva.
6. I limiti del bicameralismo perfetto: alibi per una controriforma
Da oltre vent’anni in Italia si punta il dito sull’anomalia rappresentata da un sistema legislativo incentrato su due Camere che hanno uguali competenze e che comportano una duplicazione del procedimento legislativo. Tuttavia le statistiche parlamentari – disponibili online sul sito del Senato – smentiscono radicalmente coloro che si strappano le vesti sulla lunghezza dei tempi di approvazione delle leggi. Nella legislatura 2008-2013 le leggi di iniziativa del governo, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono arrivate alla approvazione definitiva mediamente in 116 giorni. Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati 38 giorni, che scendono a 26 per la conversione dei decreti collegati alla manovra finanziaria. E’ singolare che si elimini il Senato, corpo politico elettivo di rappresentanti dei cittadini, per inventare un preteso Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali, proprio quando si è esaurito il ciclo espansivo dei regionalismo e si prevede di ricondurre allo Stato centrale competenze che, troppo superficialmente sono state assegnate alle Regioni con la riforma del titolo V del 2001.
7. Ridurre i poteri delle Regioni.
Uno degli obiettivi della riforma costituzionale – decantato nella propaganda del si – è proprio quello di ridurre i poteri delle Regioni, alle quali vengono sottratte competenze tipicamente regionali come il controllo del territorio e la possibilità di partecipare ai processi decisionali nelle questioni che riguardano la produzione e la distribuzione dell’energia e le grandi opere, attività che incidono profondamente sulla salubrità dell’ambiente, sull’economia e sulle condizioni di vita delle popolazioni locali.
La riforma mette in mutande le Regioni spogliandole della loro autonomia legislativa e trasformandole in Enti sostanzialmente amministrativi come le Province. In pratica la riforma cerca di introdurre in Costituzione alcuni principi contenuti nella legge sblocca Italia che prevedono l’esclusione delle Regioni dai processi decisionali in materia energetica ed infrastrutturale, che la Corte costituzionale ha bocciato per violazione degli artt. 117 e 118 Cost. Infatti con la sentenza n. 7/2016, la Corte ha dichiarato:
1) l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 2 e 4, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, nella parte in cui non prevede che l’approvazione dei relativi progetti avvenga d’intesa con la Regione interessata;
2) l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 10-bis, del d.l. n. 133 del 2014, nella parte in cui non prevede che l’approvazione del Piano di ammodernamento dell’infrastruttura ferroviaria avvenga d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni;
3) l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 11, del d.l. n. 133 del 2014, nella parte in cui, ai fini dell’approvazione, non prevede il parere della Regione sui contratti di programma tra l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC) e i gestori degli scali aeroportuali di interesse nazionale.
Come se non bastasse, con l’introduzione della “clausola di supremazia”, che alcuni giuristi hanno qualificato come “clausola vampiro” il Governo si riserva il potere di intervenire anche nelle materie riservate alla competenza esclusiva delle Regioni.
8. Gli obiettivi della riforma: il premierato assoluto
Nessuno si oppone, pertanto, ad un’opera di manutenzione della Costituzione che possa rimediare agli inconvenienti del bicameralismo perfetto, ma la grande riforma Renzi/Boschi non interviene sulle inefficienze del bicameralismo. Essa persegue un altro obiettivo: quello di aggredire la centralità del Parlamento, cominciando ad eliminare una Camera ed assoggettando l’altra, eletta con metodo supermaggioritario, alla supremazia del Governo, che, essendo già padrone della maggioranza parlamentare, con la riforma, imponendo l’approvazione delle leggi a data fissa, nel termine di 70 giorni, si impadronisce dell’agenda dei lavori parlamentari.
In questo modo viene appannata la distinzione fra potere legislativo e potere esecutivo, dal momento che il capo del partito politico “vincitore” delle elezioni, è a capo del potere esecutivo e controlla la maggioranza parlamentare, da lui stesso creata. A questo capo di partito che esercita un potere di fatto quasi senza limiti possono opporre solo un debole argine le istituzioni di garanzia, Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale. Attraverso le riforme, viene consolidato il passaggio da una democrazia rappresentativa, fondata sulla centralità del Parlamento, ad una democrazia dell’investitura, fondata sulla prevalenza dell’Esecutivo sul Parlamento e del governo centrale sulle autonomie regionali. Il risultato finale è quello di instaurare una sorta di Premierato assoluto.