Questo articolo di Raniero La Valle stato scritto per il numero del mensile dei Laureati cattolici, “Coscienza”, che uscirà in aprile. L’autore ce ne ha consentito la pubblicazione. L’articolo riprende il dibattito aperto su c3dem da Franco Monaco
La nuova Costituzione di destra della Repubblica italiana è stata provvisoriamente approvata dalla Camera dei Deputati il 10 marzo scorso, e ancora non si sa perché.
Dicesi “la nuova Costituzione” perché al di là dell’alto numero degli articoli modificati (più di 50), è l’intera figura della Repubblica che viene cambiata. È ciò che sostengono Bersani, Rosi Bindi e gli esponenti della minoranza del PD, che pure l’hanno votata; ed è ciò che risulta dal passaggio, per nulla secondario, dal bicameralismo al monocameralismo e dal cambiamento di verso del circuito della fiducia, che non correrà più in senso orario dal Parlamento al governo, ma in senso inverso fluirà dal capo del governo al Parlamento, ovvero ai parlamentari che, grazie alla legge elettorale in gestazione, saranno scelti da lui.
Dicesi “di destra” perché nella tradizione linguistica e storica ciò che profitta alla discrezionalità e alla perpetuazione del potere è chiamato di destra, e ciò che profitta alla sovranità popolare e all’equilibrio e sindacabilità dei poteri è chiamato democratico se non di sinistra; e dicesi “di destra” perché la nuova Costituzione è stata scritta di concerto dal governo e dalla destra parlamentare, anche se il 10 marzo per una ripicca politica questa non l’ha votata.
Dicesi “provvisoriamente” perché se i suoi fautori considerano di averla messa per “il 90 per cento in cassaforte” (Ceccanti su Avvenire dell’11 marzo), non è affatto detto che il processo trasformatore continui il suo corso fino alla fine (legato com’è alle sorti del governo: simul stabunt et simul cadent) e non è detto che in ultima istanza esso non sia bloccato dal voto popolare nel referendum, come già avvenne nel 2006 con il rifiuto popolare della Costituzione di Berlusconi.
Dicesi “non si sa perché” in quanto, a parte Renzi, di cui è evidente l’interesse politico immediato e che del resto non ha votato non facendo parte del Parlamento, non è chiara la logica degli altri, essendo le ragioni per cui hanno votato a favore o contro la riforma molto diverse dalle ragioni che dovrebbero presiedere a un voto sulla Costituzione. Doveva essere infatti una riforma nella quale si celebrasse l’unità recuperata sui grandi temi della Repubblica tra maggioranza e minoranza parlamentare (quasi a ripetere il miracolo unitario della Costituente) e invece mai nel voto il Parlamento è stato così frammentato e diviso: la nuova Costituzione è stata votata da un solo partito (nemmeno tutto) con le sue appendici al governo, un terzo dei deputati sono usciti fuori dell’aula, i membri di una delle minoranze sono stati invitati dalla presidenza ad “abbassare la Costituzione” (cioè il libro che quelli agitavano), invito perentorio che diventava così involontario simbolo di ciò che in effetti si stava facendo con quel voto. E dicesi “non si sa perché”, in quanto a favore della nuova Costituzione votavano i parlamentari del PD che mai, senza il patto del Nazareno, l’avrebbero scritta in quel modo, e che erano stati nominati dal precedente segretario del PD che di quella stessa riforma diceva che era sbagliata e tale da portare l’Italia fuori della democrazia. A favore votava anche la minoranza del PD, che aveva promesso invece mille battaglie e diceva che comunque quello era l’ultimo “sì”. Contro votavano i deputati di Forza Italia, tranne l’ex democristiano Rotondi; che denunciava l’innaturalità di quel “no”, e d’accordo con lui erano altri 17 dissenzienti del gruppo presieduto da Brunetta che pur votando contro la riforma per disciplina di partito, dicevano di farlo non per affetto alla Costituzione ma per affetto a Berlusconi, rivendicando con orgoglio che in realtà quella nuova Costituzione era stata scritta da loro.
Tutto ciò riguarda il modo in cui la nuova Costituzione sta venendo alla luce. È un modo così sguaiato che equivale a decostituzionalizzare l’Italia, perché fa scendere la Costituzione da quel trono di nobiltà e di prestigio onde il popolo l’aveva riconosciuta come suprema regola di etica civile, e la riduce a una pandetta di regole minute figlia, come le altre leggi, del potere, voluta per forza, e passata attraverso un conflitto durissimo tra le diverse parti del popolo che ne avrebbero dovuto fare invece il patto sacrosanto tra loro.
Dalla rappresentanza all’investitura
Nel merito la nuova forma di governo o di Stato, al di là del modo in cui la si voglia definire – monocameralismo imperfetto, premierato assoluto, sistema parapresidenziale – configura il passaggio da una democrazia rappresentativa a una democrazia dell’investitura. La rappresentanza viene meno con la legge elettorale renziana e con il Senato corporativo espresso dai consigli regionali, l’investitura è bene espressa dallo slogan vincente secondo il quale bisogna sapere la sera stessa delle elezioni chi avrà il potere per i successivi cinque anni, che è appunto il rovescio del sistema parlamentare. Il problema è che la democrazia dell’investitura non è solo diversa, ma alternativa alla democrazia parlamentare, e addirittura è incompatibile con la democrazia quale è intesa nella Costituzione del 47: per i costituenti repubblicani instaurare la democrazia non voleva dire solo stabilire le forme per un accesso democratico al potere, ma voleva dire giocare la sovranità popolare in un potere esercitato nelle forme costituzionali per realizzare una democrazia sostanziale conforme ai diritti e ai principi fondamentali sanciti nella Carta. Dunque in gioco nel quadro costituzionale non è il modo in cui viene investito il sovrano – se per grazia di Dio o volontà della nazione – né il passaggio da una monarchia a una “poliarchia”-, ma è in gioco il modernissimo problema di una vera realizzazione della sovranità popolare (quando perfino la Chiesa si definisce non più come gerarchia ma come popolo).
La domanda che a questo punto mi sembra rilevante per noi è come la battaglia sul futuro della Costituzione incrocia la questione cattolica in Italia. Mi chiedo quale portata ha questo scontro nella storia del cattolicesimo italiano.
Bisogna ricordare che cos’è, che cosa è stata la Costituzione non solo nella storia del nostro Paese ma nella storia dei cattolici italiani, e in particolare nella vicenda di quei cattolici “intellettuali” che hanno animato la tradizione dei “Laureati cattolici” di Righetti e di Montini, della FUCI dei Moro e di Andreotti, e infine si sono ritrovati nel MEIC.
La Costituzione è una parte ineludibile di questa storia, e anzi di questa identità. Sarebbe bene ricordare ai cattolici italiani che la Costituzione è il punto culminante della loro storia civile, la cosa migliore che in tanti decenni il cattolicesimo politico, insieme con le altre famiglie culturali e politiche, ha prodotto e ha lasciato come dono non solo per sé ma per tutti.
La Costituzione nella storia civile dei cattolici
A monte della Costituzione del ’47, che in alcuni punti dirimenti è stata scritta per mano di cattolici, e cattolici non solo di battesimo, c’è la democrazia cristiana di Romolo Murri, c’è il partito pluralista e aconfessionale di Sturzo, c’è il partito popolare di De Gasperi e ci sono i ministri popolari che abbandonarono il ministero Mussolini per opporsi alla legge elettorale Acerbo (l’ “Italicum” dell’epoca), ci sono le Fiamme Verdi di Teresio Olivelli e di Franco Salvi, c’è la resistenza partigiana armata comandata in Emilia da Giuseppe Dossetti. E a valle della Costituzione c’è la democrazia repubblicana, c’è il Concilio che ne riprese, universalizzandolo, l’art. 7 (“la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti ed autonome l’una dall’altra nel proprio campo”) e che proclamò l’autonomia politica dei laici cattolici e la scelta della Chiesa per la libertà politica e la libertà di coscienza: un Concilio che tuttavia la Democrazia Cristiana del tempo non capì, pretendendo di averlo profeticamente anticipato, ragione per cui non riuscì a sopravvivere alla fine dell’unità politica dei cattolici garantita per disciplina ecclesiastica, licenziata dottrinalmente dal Concilio; se invece lo avesse capito, la storia sarebbe poi stata diversa.
In tutta questa vicenda, prima e dopo la nascita della Repubblica e fin dopo il Concilio, almeno fino all’uccisione di Moro, il cimento, l’assillo, la bandiera dei cattolici italiani che si sono misurati con la Costituzione e con la politica non sono mai stati un’ansia di efficientismo, una pretesa di più governo, la ricerca di una tecnica per rendere più spedito e incontrollato il potere, ma sono stati invece il disegno di una società umana – di una civitas humana – il primato e il rispetto della persona, l’eguaglianza, l’inclusione delle classi e delle culture scartate o escluse, l’antidoto ai poteri invasivi.
È per queste ragioni che una gran parte del movimento cattolico, oggi in larga misura fuori dai partiti, chiede una pausa di riflessione e il rinvio della revisione costituzionale a tempi più favorevoli, perché anche a voler ammettere che possa essere legittima una riforma approvata da un Parlamento che secondo la Corte è stato eletto in modo incostituzionale, tuttavia, come dice San Paolo nella Prima ai Corinti, se “tutto è lecito!”, “non tutto giova”, e soprattutto “nessuno deve cercare il proprio interesse, ma quello degli altri”.
Il confronto col cattolicesimo democratico
Nel vasto arcipelago del cattolicesimo italiano quella che è chiamata particolarmente in causa dalla revisione costituzionale è la tradizione del cattolicesimo democratico.
Il tema della responsabilità di questa tradizione dinanzi a Renzi e alla sua riforma costituzionale è stato posto in uno scambio polemico tra l’on. Franco Monaco, che viene da quella scuola, e Stefano Ceccanti, e in un articolo di padre Bartolomeo Sorge su Aggiornamenti Sociali.
Franco Monaco di fronte alle notizie secondo cui si sarebbe andata formando una componente cattolico-renziana nel PD, che sarebbe di ispirazione cattolico-democratica e cristiano-sociale, scriveva in c3dem che se si pensa ai grandi nomi che sono associati a quelle tradizioni – Moro, Dossetti, La Pira, Gorrieri, lo stesso Mattarella – “l’impressione complessiva è quella di una distanza piuttosto che una consonanza tra quelle figure e la politica del PD renziano”, o quantomeno rispetto “al suo stile e ai suoi paradigmi”. E nome per nome argomentava la distanza tra le grandi lezioni incorporate in quelle figure e il corso renziano, supponendo tra loro “una comparazione per nulla pacifica e pacificante”.
Per contro padre Sorge individuava in quelle tradizioni addirittura “le radici” del progetto renziano, il quale mirerebbe alla nascita di “un moderno partito liberal-sociale, riformista (di sinistra) in grado di superare la crisi della democrazia rappresentativa e condurre l’Italia alla democrazia dell’alternanza (bipolare)”. Secondo padre Sorge ci sarebbe già stato un precedente non riuscito di questo tentativo, che è stato lo stesso Partito Democratico, il cui “Manifesto” del 2006 postulava un bel cocktail (non saprei dire se più ingenuo o più rozzo) che mettesse insieme il cristianesimo, l’illuminismo, il pensiero liberale, il pensiero socialista, quello cattolico democratico. quello ambientalista, il femminismo e, infine, i diritti civili. Per padre Sorge Renzi discenderebbe addirittura da Sturzo, che sarebbe anche l’antesignano di Veltroni e del suo partito pigliatutto, perché, con l’”Appello ai liberi e forti” che diede vita al Partito popolare, avrebbe voluto creare (ma troppo in anticipo!) “un soggetto politico a vocazione maggioritaria”: a lui non riuscì, sicché dovette contentarsi di un partito “in tutto simile ai partiti già esistenti”, che poi fu soppresso da Mussolini, ma adesso è la volta buona. È evidente che padre Sorge dimentica la scelta “intransigente”, cioè antiliberale e anticlerico-moderata di Sturzo, la sua strenua battaglia per la proporzionale contro la corruzione dei collegi uninominali gestiti dai prefetti, dai capibastone e dai capimafia, e dimentica la sua lotta per la democrazia pluralista e contro il partito della Nazione che allora era quello di Mussolini.
Stefano Ceccanti da parte sua trova nel testo di Franco Monaco “la dimostrazione che le culture politiche non possono transitare così come erano da un sistema dei partiti all’altro”; perciò anche la cultura cattolico-democratica non può “coprire tutti i contenuti possibili con cui viene associata nel passato”. A questo punto nasce però il problema di quali rinunzie questa cultura dovrebbe fare per essere compatibile col nuovo sistema e “dare un giudizio favorevole delle riforme in itinere”, e ne potrebbe risultare che esse siano in realtà tali da comportare una drammatica rottura dei cattolici democratici con la loro tradizione. Per esempio per Ceccanti contro lo “statalismo” di Dossetti che nel noto discorso del ‘51 attribuiva “allo Stato un ruolo di gestione diretta molto estesa” bisognerebbe oggi riadattare le visioni social-liberali della Terza Via, “per le quali le istituzioni incitano, sollecitano, responsabilizzano”, ma i vecchi strumenti dell’intervento pubblico sono abbandonati. La via di Dossetti e del cattolicesimo democratico che fu seguita nell’età dei partiti sarebbe obsoleta perché interna “alla crisi delle culture stataliste di sinistra di matrice comunista e socialista”. Si può osservare però che è proprio questa via che sta al centro della Costituzione del ’47 e che dall’art.3 struttura tutto quello che essa chiama il “compito della Repubblica”: rimuovere gli impedimenti di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, sono di ostacolo al pieno sviluppo delle persone, alla libertà e alla giustizia.
Se ne potrebbe concludere: che l’art.3 è la vera posta in gioco della riforma costituzionale, la vera posta in gioco della legge elettorale, del partito della nazione, del passaggio dalla rappresentanza all’investitura, dell’abolizione del Senato, del cambiare verso al circuito della fiducia, non più dal Parlamento al governo ma dal capo del governo al Parlamento.
E si potrebbe dire al mondo cattolico italiano, oggi diviso tra chi difende la Costituzione e chi intende rottamarla, che sarebbe il colmo se, proprio quando c’è un papa che invita alla lotta contro la “dittatura” di un’economia “senza volto e senza uno scopo veramente umano”, i cattolici tradissero una Costituzione che sancisce invece “il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune”, come chiede, al n. 55, l’Esortazione Evangelii Gaudim e come il papa non si stanca di invocare e per il quale incoraggia la lotta dei poveri.