Draghi ha indicato, nel discorso di insediamento, la transizione ecologica come uno dei pilastri del PNRR, il piano nazionale che deciderà l’uso dei fondi che l’Europa metterà a disposizione dell’Italia per riprendersi dal disastro economico dovuto alla pandemia da Covid 19. La pandemia è anzitutto un disastro per la salute e la vita delle persone, per le relazioni sociali, per il futuro dei più giovani, tuttavia è anche un disastro economico, con arretramento del Pil del 10%, con un aumento vertiginoso del debito pubblico, con l’esplosione delle disuguaglianze sociali, tanto che l’immagine dell’ascensore sociale che non funziona è inadeguata. Ormai c’è un pozzo di povertà in cui cadono milioni di persone che vedono venire meno anche quel poco che prima avevano per vivere, mentre il tempo della pandemia è occasione per accrescere la ricchezza e il potere di (pochi) altri.
Se la scelta del governo sarà duratura e all’altezza della sfida si vedrà. Visto che il PNRR fino al 2026 sarà il motore dell’economia e della trasformazione sociale del Paese e che occorre non solo, come è ovvio, rispettare i tempi per non perdere i fondi europei, ma è necessario spenderli bene, realizzando al meglio gli obiettivi, è decisivo andare a vedere le intenzioni di questo governo. Senza pregiudizi e senza deleghe in bianco, né al governo, né alla politica. Anzi è l’occasione per provare a ricostruire una partecipazione diffusa, di persone, di associazioni, di territori.
Naturalmente il discorso non è una tantum, ci sarà, anche dopo, tempo e modo di fare valere opinioni. Lo si capisce dalla relazione al parlamento del nuovo ministro per la Transizione ecologica. Tuttavia va sottolineato che il nucleo forte delle scelte verrà fatto in sede di redazione definitiva del PNRR e dall’accordo con l’Europa. Finora la possibilità di esprimere opinioni è stata limitata, quasi inesistente, tranne che per i centri di potere economico che hanno tirato fuori dai loro cassetti i progetti pronti e hanno iniziato una pressione sul governo Conte 2 ed è prevedibile che ci proveranno anche ora. Tutti i capitoli di spesa sono importanti e il loro obiettivo deve essere rimettere in moto l’economia nazionale in modo da generare le risorse per non essere tra qualche anno strangolati dalla crescita del debito dovuta alla pandemia e alla crisi. Tuttavia, alcuni capitoli sono decisivi per la trasformazione del sistema economico, per la sua dislocazione in settori innovativi, con tutte le conseguenze sul piano della formazione dei lavoratori e della loro partecipazione alle scelte, degli investimenti innovativi, della ricerca necessaria.
Ad esempio, la pandemia ha reso evidente che le spese per la sanità pubblica non sono soldi buttati, anzi riguardano la tutela della vita delle persone, e richiedono investimenti in settori che debbono diventare fattore di autonomia nazionale per avere a disposizione i mezzi necessari per l’attività sanitaria, cioè settori produttivi per i prodotti sanitari necessari. Pensiamo solo a cosa è accaduto per le mascherine. In sostanza, il decentramento in altre parti del globo delle produzioni indispensabili per il SSN ha dimostrato che è stata una scelta sbagliata e non è in grado di garantire gli strumenti necessari per le cure. Quindi occorre una politica industriale per consolidare attività di ricerca e produzione in Italia, in un quadro di accordi europei.
Questo problema è lo stesso che il nostro Paese ha nei settori connessi con la transizione ecologica. Ricerca, innovazione, qualità del lavoro (compresi i diritti) sono facce dello stesso problema. L’Italia ha già oggi competenze d’avanguardia ma non le usa, o almeno non sono inserite in un progetto sistemico. Ormai viene riconosciuto che occorrono investimenti nelle rinnovabili e in particolare nell’eolico. Ne parla il ministro Cingolani nella relazione. Fotovoltaico, idroelettrico, eolico, ecc. In Italia l’eolico ha potenzialità di espansione soprattutto in mare e, a differenza dei mari del nord Europa, va installato su piattaforme galleggianti.
Per procedere occorre anzitutto una sorta di piano regolatore delle installazioni per sfuggire ai ritardi e alle reticenze da tempo denunciate nel rilascio delle concessioni, poi è necessario verificare se esistono le competenze necessarie. In Italia le competenze ci sono, ma per ora lavorano per l’estero, perché finora l’eolico offshore non è stato scelto. Se si vuole che crescano e diventino soggetti attuatori occorre un piano di investimenti, quindi bisogna convincere i soggetti che debbono fare gli ordinativi a predisporre un progetto a cui le imprese attuali potranno agganciare le loro scelte e prepararsi ad una sfida impegnativa.
Il risultato sarebbe occupazione di qualità, imprese competenti e sviluppate che vanno coinvolte nella ricerca e questa a sua volta dovrebbe essere fortemente incentivata per guidare l’evoluzione tecnologica. Ad esempio, una politica come questa sarebbe musica per le orecchie delle località del mezzogiorno che vedono esaurirsi le attuali presenze produttive. È evidente che le centrali di cui parla Agostinelli nel suo articolo sono centrate sull’uso del carbone e quindi destinate ad essere superate e chiuse entro pochi anni. Da questo dovrebbe derivare che per produrre energia il fossile di ogni tipo venga escluso e quindi il primo obiettivo deve essere sviluppare le rinnovabili con grande determinazione. Le energie rinnovabili sono il presupposto per produrre idrogeno cosiddetto verde, dove verde è l’energia usata per produrlo. Nella posizione del ministro uso dell’idrogeno e fusione nucleare sono appaiati, in realtà è un’illusione ottica perché l’idrogeno è vicino ad un uso diffuso per la mobilità, per la produzione di energia, mentre la fusione nucleare merita attenzione, ma sembra più lontana. Occorre respingere il tentativo di giustificare la permanenza dello sfruttamento delle risorse fossili per produrre energia e per la mobilità, ma per farlo con la forza necessaria occorre costruire alternative. Le alternative si muovono nel concreto delle situazioni e a Civitavecchia ci può essere un mix di interventi che consentono di chiudere con il carbone senza scivolare sulla china del turbogas, che inevitabilmente ritarderebbe le scelte alternative.
Vale la pena di ricordare che avvenimenti importanti come l’incidente di Fukushima vengono dimenticati rapidamente.
L’Italia ha evitato il rischio di costruire nuove centrali nucleari grazie al referendum del 2011, che ha detto un secco NO a Scaiola e Berlusconi. Siamo sicuri che non ci saranno nuovi tentativi? La Francia ha appena deciso di concedere altri 10 anni di vita (pericolosa) alle vecchie centrali. Escono articoli che decantano come sicuro il nucleare di fissione, tentando di legare il suo uso alla produzione di idrogeno, come alternativa ai combustibili fossili. Centri di potere economico, nazionali e non, hanno ripreso in grande stile la campagna per riabilitare il nucleare. Bill Gates in testa. La fissione ha problemi di sicurezza durante il funzionamento delle centrali, ma ne ha altrettanti nella dismissione delle centrali. I costi per la dismissione delle centrali sono enormi e vengono scaricati sul bilancio dello Stato e sulle bollette. I rischi e la complessità tecnica dello smantellamento delle vecchie centrali sono evidenti, ci sono materiali radioattivi che nessuno sa come smantellare.
L’Italia ha avuto poche centrali funzionanti, per tempi limitati, fino alla vittoria del No nel primo referendum, ma non ha risolto il problema delle scorie e dei materiali contaminati. Il materiale più pericoloso, oggi in Francia e in Gran Bretagna per il trattamento, è destinato a ritornare. Anche ricerca e medicina usano materiali che producono quantità limitate di scorie. La Sogin ha reso pubblica nel gennaio scorso una mappa con 67 possibili localizzazioni del deposito delle scorie, in realtà una non scelta. La localizzazione delle scorie, per evitare rischi (ecomafie, incidenti, ecc.) deve essere fatta indicando poche priorità e facendo le verifiche preventive necessarie. Per le scorie a minore intensità radioattiva (centinaia di anni) il deposito non deve sconvolgere la vita civile, socioeconomica, i beni culturali e verificare condizioni geologiche, acque, refluo, rischi sismici. Con questi criteri le localizzazioni si ridurrebbero drasticamente. Sulle localizzazioni residue vanno fatte preventivamente le verifiche di impatto ambientale.