Sul tema della riduzione del numero dei parlamentari chi ha ancora a cuore la democrazia repubblicana ha il dovere di essere particolarmente chiaro, questa volta senza sfumature: Il Comitato per la Democrazia Costituzionale dovrebbe chiedere udienza al Presidente della Repubblica, naturalmente non per chiedere un suo intervento che sicuramente non può eventualmenteoltrepassare il limite di una “moral suasion” .
L’occasione dovrebbe però essere colta per fare in modo che alla più Alta Magistratura della Repubblica possano essere direttamente illustrate le ragioni di chi si oppone a questo sicuramente nefasto provvedimento.
La riduzione nel numero dei parlamentari, nelle condizioni in cui questo provvedimento potrebbe realizzarsi se il voto del Parlamento dovesse essere confermato nel referendum, rappresenterebbe il “vulnus” più grave inferto alla Costituzione dal 1948 in avanti.
Si tratterebbe, infatti, del frutto avvelenato dell’antipolitica accettato dai gruppi parlamentari soltanto per pavidità e opportunismo, al di fuori dai 5 stelle che ne sono stati promotori all’insegna “dell’aprire le Camere come una scatola di tonno” (discorso che echeggiava “l’aula sorda e grigia, bivacco di manipoli”).
Un’ emergenza questa della pavidità e dell’opportunismo che rappresenta un vero problema per il corretto funzionamento delle istituzioni, come abbiamo constatato anche nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria, suggellando così la davvero mediocre qualità politica e di dimensione istituzionale che fin qui è stata espressa dal combinato disposto Governo – Parlamento.
Un Parlamento eletto ancora una volta attraverso una legge elettorale nel cui testo si ravvisano diversi profili di incostituzionalità.
Del resto i Parlamenti della XV, XVI,XVII legislatura erano stati eletti con leggi elettorali dichiarate incostituzionali dall’Alta Corte.
Quello dell’incostituzionalità delle leggi elettorali rappresenta un altro particolare dimenticato quando si cerca di definire un profilo della classe politica che ha agito sul piano istituzionale nel corso degli ultimi anni.
Appare meschino il tentativo di confondere una scadenza come quella referendaria, di massima importanza per il futuro della qualità della democrazia italiana, con la canea di basso profilo che si misurerà con l’elezione diretta dei Presidenti di Regione (si tralascia, in questa occasione, il discorso sulla vera e propria “disgrazia democratica” rappresentata dall’elezione diretta a cariche monocratiche).
E’ necessario far emergere con chiarezza i termini della questione in gioco che ancora una volta, come nell’occasione dei due altri referendum confermativi del 2006 e del 2016, riguarda il cuore stesso dell’impianto previsto dalla Carta fondamentale sui temi delicatissimi della forma di governo, del ruolo delle Camere, della rappresentatività dei soggetti politici in entrambe le direzioni della piena rappresentatività delle più significative sensibilità culturali e dei territori.
Dobbiamo sollevare il tema al massimo livello.
Il voto referendario necessita di una accurata e specifica preparazione, nel corso della quale le diverse ragioni in campo debbono poter disporre dello spazio temporale e fisico per essere esposte all’intero corpo elettorale, senza interferenze varie e senza asimmetrie nel numero di schede da votare da territorio a territorio, come accadrebbe nel caso dell’accorpamento.
Si sta compiendo, in questi giorni, un vero e proprio “sopruso” al riguardo dell’esercizio pieno e legittimo della democrazia nella sua espressione più alta che è quella del diritto di voto dal punto di vista della libertà personale di espressione.
Occorre riprendere da subito la mobilitazione e portare al massimo della visibilità e della presa di coscienza collettiva, i motivi che sostengono la necessità di un regolare svolgimento del voto.