Le indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Perugia, che hanno scoperchiato una serie di trame fra magistrati e politici volte a pilotare le nomine del Consiglio Superiore della magistratura, favorendo i magistrati “amici” ed ostacolando quelli sgraditi “gettano grave discredito su un’istituzione che costituisce uno snodo fondamentale nell’architettura costituzionale, a presidio, nell’interesse dei cittadini, dell’autonomia e dell’indipendenza della giurisdizione, della sua credibilità, della sua autorevolezza”.
Correttamente l’Associazione Nazionale Magistrati ha chiesto che consiglieri direttamente coinvolti nella vicenda rassegnino le loro immediate dimissioni dall’incarico istituzionale, mentre sul piano politico si alternano silenzi imbarazzati e invocazioni a una non meglio definita riforma della giustizia.
Se tutti concordano nel denunciare il discredito che ha investito l’organo di autogoverno della magistratura, il problema è l’interpretazione dei fatti nella loro valenza politica ed istituzionale e le conseguenze che se ne devono trarre.
Il controllo di legalità effettuato da una magistratura indipendente da ogni altro potere è la principale garanzia per la tutela dei diritti fondamentali che la Costituzione riconosce come inviolabili.
I fatti svelati dall’indagine di Perugia dimostrano come abbia ripreso vigore l’ingerenza del potere politico nella nomina dei vertici della magistratura, aggirando il modello costituzionale.
Questa pretesa di riportare nell’alveo dell’indirizzo politico di governo l’esercizio del potere giudiziario, esplicitata anche dalla iniziativa del Viminale di mettere sotto osservazione quei magistrati che interpretano le leggi in modo non conforme alle aspettative governative, verrebbe definitivamente legittimata se venisse approvata la riforma costituzionale della giustizia attualmente in discussione alla Camera, intitolata “norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”.
Con il pretesto della separazione delle carriere, propugnata da una parte minoritaria della cultura giuridica, la riforma occulta due modifiche importanti destinate a incidere profondamente sul modello costituzionale che presidia l’indipendenza dalla magistratura e l’eguaglianza dei cittadini: la modifica della composizione del Consiglio Superiore della Magistratura (che viene sdoppiato) e la rottura del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
La Costituzione, a presidio della separazione dei poteri, prevede che (salvo i membri di diritto) i componenti del Consiglio Superiore della magistratura siano per due terzi eletti dai magistrati e per un terzo dal Parlamento. La riforma prevede che una metà dei membri dei due Consigli Superiori debba essere di nomina politica, quindi aumenta la componente politica e diminuisce quella professionale. A completare il quadro della “politicizzazione “della giustizia il nuovo articolo 112 prevede che: Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
In questo modo l’esercizio del potere giudiziario verrebbe definitivamente addomesticato, le nomine dei vertici della magistratura sarebbero tutte pilotate dal potere politico che, complice una frangia di magistrati servizievoli, si impadronirebbe delle carriere dei magistrati; l’esercizio dell’azione penale sarebbe definitivamente assoggettato alle convenienze del governante di turno, esponendo i cittadini ad ogni genere di abusi.
Le modifiche in gestazione (caldeggiate da un intergruppo parlamentare cui aderiscono quasi tutti i partiti), neutralizzano una delle conquiste più preziose realizzate dai costituenti: la divisione effettiva dei poteri, baluardo insuperabile per impedire degenerazioni autoritarie e tutelare i diritti fondamentali.
I mali della giustizia non possono essere presi a pretesto per introdurre delle riforme che li aggravano. Soltanto l’attuazione rigorosa del modello costituzionale può mantenere vive le garanzie della giurisdizione di cui c’è ancora più bisogno in un’epoca in cui è sempre più forte la tendenza dell’ordinamento politico a mettere in discussione le conquiste della Resistenza, i diritti fondamentali dei cittadini e la stessa unità della Repubblica.
Dobbiamo mobilitarci per impedire che questo scempio venga compiuto. Il dibattito sulle riforme istituzionali nel settore della giurisdizione deve uscire dalla clandestinità degli addetti ai lavori e coinvolgere i cittadini e le associazioni di base com’è avvenuto in passato per le riforme costituzionali.
Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ritiene indispensabile organizzare una reazione politica e culturale unitaria per bloccare il tentativo di manomettere l’autonomia della magistratura come prevista dalla nostra Costituzione, in questo senso propone di dare vita ad una azione comune ed unitaria delle associazioni che operano nella difesa e nell’attuazione della Costituzione repubblicana allo scopo di affrontare da subito gli sviluppi gli sviluppi della situazione.
Roma, 11 giugno 2019
Addetti stampa
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