Tanto tuonò che piovve!

(l’articolo è tratto dalla rivista trimestrale Alternative per il Socialismo n.73 – luglio, agosto, settembre 2024 – in uscita presso l’editore Castelvecchi)

 

Dopo una serie di annunci, ripetuti per quasi due anni, sull’intenzione di modificare la disciplina costituzionale della Magistratura, il Ministro Nordio ha partorito il testo di un disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei Ministri il 29 maggio, giusto in tempo per consentire a Forza Italia di alzare la bandierina della “riforma della giustizia” in vista delle elezioni europee di giugno.

Con l’approvazione delle legge Calderoli, presupposto per la realizzazione dell’autonomia differenziata, con il disegno di riforma costituzionale per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, approvato nel primo passaggio al Senato, e adesso con la proposta Nordio di cambiare l’ordinamento costituzionale della magistratura, si completa il disegno eversivo della destra che punta alla demolizione dei caratteri identificativi della Repubblica, delineati dalla Costituzione frutto della lotta di liberazione dal nazifascismo.

E’ noto che da molti anni l’ordinamento costituzionale della Magistratura è oggetto di attacchi furibondi e di tentativi di riforma. In data 7 aprile 2011 il Governo Berlusconi presentò un suo progetto che fu definito dal Ministro della Giustizia Alfano, una riforma “epocale” della giustizia nel nostro paese.

La riforma Berlusconi-Alfano, raccoglieva le suggestioni provenienti da alcuni settori dell’avvocatura e dalla falange dei media di proprietà o a servizio di Silvio Berlusconi, ossessionato dalle inchieste giudiziarie frutto della sua “vita spericolata” e deciso a porre fine allo scandalo del “potere diviso”.

 

La riforma Berlusconi-Alfano

L’asse centrale della “riforma epocale” di Alfano si incentrava sulla rottura del modello costituzionale  dell’unicità della magistratura, considerata come “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104 Cost.), laddove “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, mentre “il Pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario” (art. 107). In questo contesto “L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria” (art. 109) e “il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” (art. 112)

Nel disegno costituzionale, l’indipendenza da ogni altro potere, viene assicurata dall’autogoverno, attribuito ad un organo di rilievo costituzionale, il Csm, al quale spettano: “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni ed i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (art. 107). Il Csm è presieduto dal Presidente della Repubblica, ne fanno parte di diritto il primo presidente ed il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune.” (art.104). La prevalenza dei magistrati ordinari è una garanzia che l’autogoverno non si trasformi in eterogoverno, ovvero che la gestione del corpo dei magistrati non sia sottoposta al controllo del potere politico.

Nella riforma Alfano la magistratura viene divisa in due corpi separati: i giudici ed i pubblici ministeri. Vengono istituiti due organi di governo, il Consiglio Superiore della Magistratura giudicante e quello della Magistratura requirente. Entrambi sono presieduti dal Presidente della Repubblica, ma viene modificato il rapporto fra i componenti togati e quelli eletti dal Parlamento, non più due terzi/un terzo, bensì metà componenti togati e metà eletti dal Parlamento.  La scelta dei componenti togati non è libera, ma avviene “previo sorteggio degli eleggibili”.

Ai due Consigli superiori viene sottratta la competenza disciplinare, affidata ad un nuovo organo, La Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente, dotata di due Sezioni, composte per metà di membri eletti dal parlamento e per metà di membri scelti dai giudici e dai pubblici Ministeri, “previo sorteggio”. In questo contesto di addomesticamento della magistratura, viene degradato anche il principio di obbligatorietà dell’azione penale poiché la riforma Alfano prevede che: “l’ufficio del Pubblico Ministero (non il singolo!) esercita l’azione penale secondo di criteri stabiliti dalla legge”.

 

La proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione delle Camere penali

La caduta del Governo Berlusconi IV ha impedito che la “riforma epocale” della giustizia andasse in porto. Nella XVII (15 marzo 2013 – 22 marzo 2018) e XVIII legislatura (23 marzo 2018 – 12 ottobre 2022), nessuna compagine governativa ha messo in cantiere una riforma costituzionale della magistratura, mentre si sono accumulate diverse proposte di riforma di origine parlamentare, tutte orientate nella stessa direzione volta ad aggredire il modello costituzionale.    Fra queste spicca la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare presentata dall’Unione delle Camere penali il 31 ottobre 2017 con il supporto di 74mila firme. La proposta sostanzialmente prevedeva la divisione delle carriere con l’istituzione di due separati Consigli superiori con la composizione per una metà di togati e per l’altra metà di laici e incideva sull’obbligatorietà dell’azione penale prevedendo che Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale: «nei casi e nei modi previsti dalla legge».

Sulla scia della proposta dell’Unione delle Camere penali sono stati presentati in questa legislatura  cinque proposte di riforma costituzionale, quattro pendenti alla Camera ed una al Senato, tutte con la medesima intitolazione («Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura»), cioè :

  • Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa (Azione), presentata in data 13 ottobre 2022;
  • Proposta A.C. n. 432, d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), presentata in data 24 ottobre 2022;
  • Proposta A.C. n. 806, d’iniziativa dei deputati Calderone, Cattaneo, Pittalis e Patriarca (Forza Italia), presentata in data 24 gennaio 2023;
  • Proposta A.C. n. 824, d’iniziativa dei deputati Morrone, Bellomo, Bisa, Matone e Sudano (Lega), presentata in data 26 gennaio 2023;
  • Ddl S. n. 504, d’iniziativa della senatrice Erika Stefani e di altri 21 senatori cofirmatari (Lega), presentato in data 26 gennaio 2023.

 

Il disegno di legge presentato da Nordio

Dopo una lunga gestazione  Nordio ha scoperto le sue carte ed ha presentato il suo disegno di riforma, che si muove nella stessa direzione della “riforma epocale” di Alfano e delle successive proposte, insistendo nel principio della separazione delle carriere, ma presenta alcune significative differenze.

Anche al centro del progetto Nordio c’è la rottura del modello costituzionale della unicità della magistratura, con la creazione di due distinti Consigli superiori per amministrare i due corpi separati dei magistrati giudicanti e requirenti.  A differenza degli altri progetti, Nordio lascia inalterata la composizione dei membri elettivi del Consiglio Superiore della Magistratura fatta da due terzi di togati contro un  terzo di membri di derivazione politica, ma  la diversità risiede nelle modalità della scelta. I membri togati vengono scelti per sorteggio. I membri laici vengono anch’essi scelti per sorteggio, ma all’interno di una platea di soggetti designatii dal Parlamento in seduta comune mediante elezione.

Anche il progetto Nordio sottrae ai due Csm la competenza disciplinare, affidata ad un organo creato ad hoc, denominato Alta Corte disciplinare, composta da sei membri laici e nove membri togati. Tre membri laici sono nominati dal Presidente della Repubblica e tre sono nominati per sorteggio da un elenco compilato dal Parlamento in seduta comune. I membri togati (tre provenienti dalla carriera giudicante e tre dalla carriera requirente) sono scelti per sorteggio solo fra i magistrati che abbiano almeno venti anni di servizio e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità.

Contro le sentenze disciplinari, anche se attengono a diritti, non è ammesso il ricorso per cassazione. Si potrà solo proporre appello dinanzi alla stessa Corte, che giudicherà in  diversa composizione.

A differenza delle altre proposte, la riforma Nordio non modifica l’art. 112 Cost. sull’obbligo del Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale.

 

Separazione delle carriere: una necessità inventata, fondata su miti fasulli.

Il tema della separazione delle carriere fra la magistratura giudicante e quella requirente viene agitato nel dibattito pubblico da oltre trent’anni e – di solito – viene confuso con il tema della separazione delle funzioni. Il tema è stato oggetto nel 2000 di un referendum promosso dai radicali che proponeva l’abrogazione dell’art. 190, secondo comma, dell’Ordinamento giudiziario sul passaggio dei magistrati dalla funzione giudicante a quella requirente. Nell’ammettere il quesito la Corte Costituzionale, con la sentenza 37/2000 rilevò che il titolo attribuito al quesito dall’Ufficio centrale per il referendum: “Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”  non appariva adeguato perché eccedente, “rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte, concernenti piuttosto, come si è detto, l’attuale disciplina sostanziale e procedimentale dei passaggi dall’una all’altra funzione in occasione dei trasferimenti dei magistrati a domanda.”

Il referendum del 2000 fallì per mancato raggiungimento del quorum ma la disciplina dei passaggi dei magistrati dalla funzione giudicante a quella requirente, e viceversa, fu oggetto di forti restrizioni a seguito di interventi legislativi successivi. In particolare le relative norme originarie dell’ordinamento giudiziario furono modificate dal d.lgs n. 160 del 5 aprile 2006, emesso in attuazione della legge delega n. 150 del 20 luglio 2005, successivamente modificate dalla legge n. 111 del 30 luglio 2007, con conseguente notevole cambiamento del sistema preesistente. A seguito di tale riforma ordinamentale, infatti, le funzioni requirenti di primo grado potevano essere conferite solo a magistrati che avessero conseguito la prima valutazione di professionalità, vale a dire dopo quattro anni dalla nomina. La riforma, peraltro, aveva limitato il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti, e viceversa, sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:

  1. a) all’interno dello stesso distretto; b) all’interno di altri distretti della stessa regione; c) all’interno del distretto di corte di appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato prestava servizio all’atto del mutamento di funzioni.

Sotto il profilo soggettivo, veniva stabilito il limite massimo di quattro passaggi nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni esercitate pari a cinque anni. Ai fini del passaggio si richiedeva inoltre la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.

 

La riforma Cartabia

La riforma del 2006/2007 comportava una netta separazione delle funzioni giudicanti e requirenti e restringeva notevolmente la possibilità per i magistrati del passaggio da una funzione all’altra. La separazione delle funzioni è stata resa ancora più stringente dalla riforma Cartabia. La legge n. 71 del 2022 ha determinato un’accentuazione estrema del processo di divisione interna del corpo della magistratura, procedendo oltre i già rigidi steccati eretti dalla riforma Castelli del 2006 e realizzando il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata. L’art. 12 della legge 71/2022 ha, infatti, modificato l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una volta nel corso della carriera, entro il termine di 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni.

In proposito, ha efficacemente osservato Nello Rossi: “Se per ‘separazione delle carriere’ dei giudici e dei pubblici ministeri si intende una netta divaricazione dei percorsi professionali e la diversità dei contesti organizzativi nei quali vengono svolti i rispettivi ruoli professionali, allora bisogna prendere atto che, a seguito degli interventi legislativi degli ultimi venti anni, la separazione si è già di fatto realizzata.”

In realtà la separazione delle funzioni all’interno del corpo unico dei magistrati è già stata realizzata al massimo livello possibile e non si è trattato di una evoluzione positiva. Il mutamento del ruolo e delle competenze professionali è una forma di arricchimento culturale per il singolo magistrato. Avere creato all’interno dell’organizzazione giudiziaria dei ghetti o dei compartimenti stagni dai quali non è possibile uscire, comporta un appiattimento culturale e ostacola la circolazione di una comune cultura giurisdizionale delle garanzie e dei diritti.

Sono in proposito ricche di passione ed efficaci le parole di Alessandra Galli, già giudice e figlia di Guido Galli, ucciso dai terroristi di Prima Linea il 19 marzo del 1980 a Milano: “Non è affatto detto che dalla separazione di giudici e Pm nascano magistrati più equilibrati. La contaminazione non intacca l’autonomia. Al contrario, si impara a valutare le cose da una prospettiva diversa. Lo dico per esperienza personale e familiare. Io sono stata nella mia carriera pubblico ministero e giudice, penale e civile, un percorso che mi ha arricchito. Soprattutto, ho avuto l’esempio mio papà: era stato Pm e poi giudice, e prima di essere assassinato stava rientrando in procura”.[1]

Per quanto si tratti di una “conquista” poco esaltante, frutto di una pervicace campagna politica, la separazione delle funzioni si è spinta al punto di realizzare una separazione di fatto delle carriere dei magistrati, sia pure all’interno di un unico corpo.

Questa separazione di fatto è confermata anche dai dati statistici. Questi sono i dati più recenti:

  • 2019 (anno intero): sono stati 5 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 19 pubblici ministeri sono diventati giudici.
  • 2020: sono stati 10 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 15 pubblici ministeri sono diventati giudici.
  • 2021: sono stati 15 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 16 pubblici ministeri sono diventati giudici.

 

I miti fasulli

Da dove sorge, dunque, la necessità di rompere il modello costituzionale per realizzare una divisione nelle carriere dei magistrati, che è stata già realizzata nella pratica?

E’ facile rispondere che si tratta di una necessità inventata, fondata su miti fasulli.

Se si leggono le proposte di riforma costituzionale e la narrativa dei media che le sostengono, l’argomento cardine per giustificare la separazione delle carriere è riferito al nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione: “il quale impone che il giudice sia non solo imparziale ma anche terzo. E terzietà non può che significare appartenenza del giudice a un ordine diverso da quello del pubblico ministero. (..)La separazione delle carriere serve a rendere il processo penale più equo perché lo assegna a un giudice terzo a garanzia dell’imparzialità della decisione.”[2]

Secondo questa vulgata, perché il processo sia equo e la decisione sia assunta da un giudice imparziale è necessario che l’organo dell’azione penale appartenga ad una carriera diversa, viceversa l’appartenenza del Pm alla stessa carriera del magistrato giudicante renderebbe il giudizio meno equo per difetto di imparzialità del giudice.

In altre parole, il giudice non sarebbe “terzo” perché l’appartenenza alla stessa carriera lo renderebbe influenzabile dal Pubblico ministero, mentre per la stessa ragione la difesa dell’imputato non giocherebbe ad armi pari, non si troverebbe a livello di eguaglianza con il Pm.

Peccato che questa tesi (del difetto di imparzialità del giudice dovuta all’appartenenza alla medesima carriera del Pm) non sia suscettibile di dimostrazione, né da un punto di vista logico, né da un punto di vista fattuale. Si tratta di un mito proposto come una verità di fede: come si sa i dogmi della fede sono indiscutibili e non hanno bisogno di essere giustificati razionalmente.

L’imparzialità è una caratteristica strutturale del giudice e deriva da una serie di meccanismi che ne garantiscano la libertà di coscienza. Nel giudicare il giudice deve essere libero da vincoli con le parti che ne potrebbero pregiudicare la sua libertà di coscienza. Per questo esistono gli istituti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione. Il giudizio non deve essere condizionato né da speranze, né da timori (nec spe, nisi metu).

In base all’ordinamento il Pubblico ministero non può effettuare alcun controllo sul giudice, non può determinare né avanzamenti, né ritardi della sua carriera, né prospettargli vantaggi o svantaggi di qualunque tipo. Se l’appartenenza al medesimo ordine incidesse sull’imparzialità delle decisioni, allora bisognerebbe separare le carriere dei giudici d’appello da quelle dei giudici di primo grado, quelle dei giudici di legittimità da quelle dei giudici del merito.

Pretendere che il giudizio non sia equo perché il Pubblico ministero eserciterebbe un’influenza sul giudice pregiudicandone l’imparzialità, è una corbelleria stellare, come affermare che l’asino vola. Il fatto che una tale sciocchezza sia agita nello spazio pubblico è indice dello stato comatoso dei media asserviti al potere.

Quanto all’argomento di tipo giuridico, secondo cui la separazione delle carriere sarebbe imposta dalla nuova formulazione dell’art. 111 della Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale, si tratta di una pretesa assurda, frutto di una lettura falsa e fuorviante. Essa prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 (“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”), quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di un principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.  Questo principio si riferisce al momento processuale del giudizio in genere, e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.).

Sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento. La parità fra Pubblico ministero e difensore è di carattere endoprocessuale, come tale essa è pienamente assicurata dall’ordinamento, ma non sussiste se riferita al piano istituzionale, che vede i due ruoli completamente disomogenei. Il ruolo pubblico del difensore è fuori discussione, ma ciò non significa affatto che sia identico rispetto a quello del Pm e caratterizzato dalle stesse finalità. Il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza. Il Pm, invece, condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le sue indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il Pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il Pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” – alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).

Tornando al senso delle descritte differenze ontologiche fra il ruolo del Pm e quello del difensore, ciascuno può agevolmente comprendere che queste non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è anzi fatto positivo per i cittadini e per la collettività.

L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo.

 

Le ragioni alla base dell’unicità della carriera: il ruolo giurisdizionale del Pm

La prima ragione a fondamento della necessità di mantenere l’unicità della carriera fra magistrati giudicanti e requirenti risiede nell’esigenza di mantenere il Pm all’interno della cultura giurisdizionale. Al riguardo, l’Associazione nazionale magistrati: “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il Pm nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità”[3] In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero – o dovrebbe condurlo – a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini[4]. E’ innegabile che nel nostro ordinamento il Pubblico Ministero svolga funzioni che ne rendono palese la natura di organo di giustizia: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che rende la sua figura più vicina a quella del giudice piuttosto che a quella dell’avvocato della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia dei diritti di libertà e patrimoniali dei cittadini, nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia, vigilando che tali provvedimenti non esorbitino dai limiti istituzionali.

La rottura del modello costituzionale di unicità della magistratura non può avere altro effetto che quello di spingere il pubblico Ministero fuori dalla cultura della giurisdizione e renderlo più prossimo alla funzione di polizia. In realtà, noi non abbiamo bisogno di un “avvocato della polizia”, ma di un organo di giustizia che sappia esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura, e senza rinunciare ad una funzione imparziale di garanzia. Sullo sfondo rimane la possibilità che, una volta separato dalla magistratura giudicante, il Pubblico Ministero finisca assoggettato, in modo diretto o indiretto, al controllo politico delle contingenti maggioranze, secondo il modello polacco o quello ungherese.

 

La neutralizzazione dell’autogoverno ed i suoi riflessi sull’indipendenza reale.

Oltre la separazione delle carriere, la riforma effettua un intervento ancora più incisivo sul modello costituzionale, ridimensionando pesantemente il sistema dell’autogoverno della magistratura, concepito dai Costituenti come argine invalicabile per garantire il pluralismo istituzionale (lo scandalo del potere diviso) e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere.

Per ottenere questo risultato la strada seguita dalla riforma Nordio, a differenza delle altre proposte in campo, non punta alla modifica del rapporto fra membri togati e laici nei due Consigli superiori, previsti rispettivamente per la magistratura requirente e per quella giudicante, ma introduce un’innovazione che – di fatto – sopprime l’autogoverno. La proposta governativa sceglie la via più radicale nel contenuto e nella forma per cambiare la Costituzione prevedendo una forma di “sorteggio secco”, per l’individuazione dei membri togati del Csm ed una sorta di sorteggio temperato per i membri laici, che sono destinati ad essere sorteggiati nell’ambito di un “elenco” compilato mediante elezione – senza alcuna previsione nel testo costituzionale di maggioranze qualificate – dal Parlamento in seduta comune entro sei mesi dal suo insediamento.

Il sorteggio introduce un aspetto discriminatorio nei confronti del corpo dei magistrati, ove si tenga presente che tutte le categorie professionali eleggono i loro rappresentanti negli ordini professionali o negli organismi disciplinari, ma non è questo l’aspetto principale di cui i cittadini possano dolersi.

Il sorteggio riflette una concezione della magistratura come “corporazione” indifferenziata, destinata ad incidere pesantemente sull’indipendenza reale.

Come ha osservato Nello Rossi:Nella scelta del sorteggio c’è però qualcosa che va oltre il proposito di infliggere una umiliazione alla magistratura. Parlo del tentativo di far rivivere una concezione della magistratura come ‘corporazione’ indifferenziata , nella quale non sono ravvisabili – e comunque non sono legittime – diverse idealità e diverse interpretazioni degli interessi professionali.

E’ solo in quest’ottica infatti che si può ritenere che ciascuno degli appartenenti al ‘corpo’, anche se scelto a caso, possa rappresentarlo nella sua interezza e decidere in suo nome.

In questa visione della magistratura si esprime una logica di ‘restaurazione’ che mira a cancellare e a smentire il percorso culturale, ideale ed istituzionale compiuto dalla magistratura negli ultimi cinquanta anni, appiattendola sull’unica dimensione di un corpo indistinto di funzionari, portatori di elementari interessi di status e di carriera cui ciascuno di essi può attendere in nome e per conto degli altri senza bisogno di scelte o investiture rappresentative.

E’ come se si volesse riavvolgere il nastro della vicenda storica dei magistrati italiani per invertire l’itinerario compiuto a partire dallo storico congresso dell’Anm svoltosi a Gardone nel 1965.

In quel congresso, all’interrogativo ‘giudici o funzionari?’ i magistrati, sostenuti dalla migliore cultura giuridica dell’epoca, risposero rivendicando orgogliosamente la loro funzione di ‘giudici’ e, con essa, la cittadinanza anche in seno al governo autonomo di diverse sensibilità e visioni del ruolo dei magistrati, dell’organizzazione degli uffici, dell’indipendenza esterna ed interna.

Oggi il governo di destra sembra animato dall’intenzione di far regredire i giudici a corpo omogeneo di ‘funzionari’, escludendo che nell’organismo che li amministra possano consapevolmente rispecchiarsi le idee e le culture dei ‘giudici’.”[5]

Il progetto di depotenziamento dell’autogoverno viene completato – come si è visto – dallo scorporo dal Consiglio superiore della funzione disciplinare che viene affidata ad un organo creato ad hoc: l’Alta corte disciplinare. Anche in quest’organo la componente togata viene scelta attraverso un sorteggio secco, con la differenza che per quest’organo il sorteggio è circoscritto ai soli magistrati con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. La giustizia disciplinare sarà dunque monopolio dei magistrati di cassazione ripristinando “una primazia che riecheggia un passato lontano nel quale gli alti gradi della cassazione svolgevano un ruolo di vertice dell’organizzazione giudiziaria e di preminenza nel Csm e nella giustizia disciplinare.”[6]

La composizione sorteggiata dell’organo disciplinare renderà oscura ed imprevedibile la funzione disciplinare con un effetto di generale intimidazione sul corpo dei magistrati.

In definitiva la rottura del modello costituzionale dell’unicità della magistratura e l’invenzione dei due Consigli superiori composti da membri sorteggiati, cancella l’autogoverno e rende oscura e non trasparente l’attività di gestione della magistratura, della quale nessuno potrà essere chiamato a renderne conto. Si creano così le condizioni per un impoverimento culturale e ideale del corpo dei magistrati, che diventeranno sempre più “funzionari” del servizio giustizia e sempre meno garanti di ultima istanza dei diritti inviolabili dei cittadini.  L’invenzione della c.d. “Alta Corte disciplinare” con la componente dei magistrati nominati per sorteggio, avendo slegato dall’autogoverno la funzione disciplinare, contribuirà a rafforzare il conformismo nel corpo dei magistrati, a detrimento dell’indipendenza reale.

Dietro questo progetto di riforma vi è la palese ispirazione ad abbattere il livello di indipendenza reale della magistratura e di ritornare alla figura del giudice funzionario che caratterizzava il volto della magistratura negli anni 50 del secolo scorso, quando la maggior parte dei magistrati proveniva da una formazione culturale maturata durante il fascismo e non era concepibile che il controllo di legalità si estendesse anche agli abusi dei poteri pubblici o privati.

Ma è possibile riportare indietro le lancette della Storia?

 

 

 

 

[1] “Carriere separate? Nordio ed i politici vogliono mani libere” (Intervista a Il Fatto Quotidiano – Marco Grasso, 20 agosto 2023).

 

[2] Così si esprime la relazione introduttiva della Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa

[3] Così in “Proposte di riforma dell’Anm in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002

[4] Cfr. la memoria sulla separazione delle carriere presentata da Armando Spataro in audizione alla Camera dei Deputati, consultabile su www.giustiziainsieme.it

 

[5] https://www.questionegiustizia.it/articolo/sorteggio-csm

[6] Così Rossi, cit.