La lunga notte della Repubblica

Da molto tempo il modello di democrazia che i costituenti hanno consegnato al popolo italiano, traendo lezione dalle dure esperienze della Storia, è percorso da una crisi di identità e di valore, sferzato da un vento di contestazione che punta ad immutare i caratteri originali e il volto stesso della Repubblica generata dalla lotta di liberazione.

Noi sappiamo quando è iniziata questa bufera: il 26 giugno del 1991, quando il  Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, mandò un formale messaggio alle Camere (ex art. 87, secondo comma della Costituzione) pressando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura, il tutto con l’ ausilio di una riforma elettorale volta a superare il sistema proporzionale a favore di un sistema maggioritario.

Secondo Cossiga, il disegno di democrazia costituzionale delineato dai padri costituenti non funzionava perché aveva creato un’architettura dei poteri che, attraverso il ruolo centrale del Parlamento e l’autonomia delle istituzioni di garanzia (magistratura e Corte costituzionale), impediva la nascita di un “potere forte” e di un Governo “stabile” (per legge). Per raggiungere questo risultato occorreva modificare la natura del Parlamento e rafforzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale maggioritaria che facesse prevalere la “governabilità” sulla rappresentatività; era necessario, inoltre, mettere le briglie alla magistratura riportando la funzione del Pubblico Ministero nell’alveo dei poteri di maggioranza. La totale delegittimazione della Costituzione del 48 veniva suggellata dalla richiesta di un’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo ordinamento.

Nei 33 anni che sono passati da quel messaggio, la profezia nera di Cossiga ha gettato la sua ombra sulla vita politico-istituzionale ed ha effettuato un percorso di attuazione che – tuttavia – è rimasto parzialmente incompiuto, grazie alle garanzie e ai meccanismi di resistenza interni al disegno costituzionale. Il primo passo verso la demolizione dell’edificio della democrazia costituzionale è avvenuto con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario che è stato salutato dai suoi sostenitori come il passaggio alla “seconda Repubblica”.  L’espressione “seconda Repubblica”, pur nella sua ridondanza retorica, segnalava che il mutamento del sistema elettorale aveva incidenza diretta sulla Costituzione, modificando il quadro istituzionale. Il primo tentativo abortito di grande riforma, volto a immutare la forma di Stato e la forma di Governo, avvenne con la riforma Bossi Berlusconi, approvata dal Parlamento nel novembre 2005 e bocciata dal popolo italiano con il referendum   del 25/26 giugno 2006. La sconfitta referendaria segnò solo una battuta d’arresto ma non fermò quel processo di verticalizzazione del potere che veniva da lontano e, non soltanto in Italia, insidiava le conquiste degli ordinamenti democratici nati dopo la Seconda guerra mondiale. Il peso crescente dei poteri finanziari e dei potentati economici, oltre a dettare l’agenda politica, ormai puntava direttamente alla delegittimazione delle Costituzioni. Il capitolo più eclatante è  rappresentato dal documento di analisi economico-politica pubblicato il 28 maggio 2013  dalla JPMorgan. La società  con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, giudicava le Costituzioni antifasciste del sud dell’Europa osservando che: “. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea -questo perché -I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». In particolare la JP Morgan identificava come caratteristiche negative “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti…tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori.. . la licenza di protestare”. Il merito di questo documento è quello di identificare chiaramente il rapporto necessario fra la verticalizzazione del potere e la demolizione dei diritti sociali e quindi di dimostrare il nesso inscindibile fra lo Stato sociale, che promuove l’eguaglianza e i diritti, e l’ordinamento politico che garantisce il pluralismo e la distribuzione dei poteri. Riferito alla Costituzione italiana il nesso inscindibile è fra la prima parte che tratta i diritti civili, politici e sociali e la seconda parte che definisce l’architettura dei poteri.

L’insegnamento impartito da JP Morgan ha guidato le scelte del governo Renzi, che si è dedicato con pari zelo a smantellare i diritti sociali, aggredendo direttamente i diritti dei lavoratori attraverso il c.d. Job’s act. e a mutare la forma di Governo e la forma di Stato attraverso un’ambiziosa riforma della Costituzione, che introduceva una sorta di premierato assoluto, agevolato da una legge elettorale (l’Italicum) ricalcata sul modello della legge Acerbo. Anche in questo caso, le garanzie interne al sistema costituzionale hanno fatto fallire il progetto istituzionale di Renzi poiché il popolo italiano ha cancellato la riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 e la Corte costituzionale ha bocciato l’Italicum (con la sentenza n. 35/2017). Tuttavia sono rimasti in vigore i provvedimenti che incidono sui diritti sociali, rispetto ai quali la CGIL, in questi giorni, ha attivato un rimedio costituzionale promuovendo 4 referendum abrogativi. Malgrado il chiaro risultato del 4 dicembre, non si sono fermati i venti di tempesta. Un’altra aggressione alla Repubblica è venuta da un’istanza politica, in origine agita, con riti istrioneschi, come progetto di secessione della “Padania”, ma successivamente incanalata in una dimensione più strettamente istituzionale, nascosta nelle pieghe della riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da un centro-sinistra inconsapevole delle sue molteplici implicazioni negative. Le mine, sepolte sotto la sabbia della riforma, hanno cominciato ad esplodere nel 2018 quando il 28 febbraio il Governo Gentiloni rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, a pochi giorni dalle elezioni politiche fissate per il 4 marzo, firmò un pre-accordo con le Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna per la concessione dell’Autonomia differenziata.

Nel nuovo clima politico determinato dalle elezioni del 25 settembre del 2022, il ciclone dell’Autonomia differenziata, che punta alla rottura dell’unità della Repubblica e dell’eguaglianza dei diritti, e quello della verticalizzazione del potere, che punta alla instaurazione di una autocrazia elettiva, si sono rafforzati e hanno preso terra nel contesto di una nuova maggioranza animata da una cultura estranea e opposta ai valori costituzionali. Ed è proprio questo contesto politico culturale che ha reso possibile l’incontro fra questi due cicloni, apparentemente guidati da ragioni confliggenti. Si è creata così una situazione che i metereologi definiscono come una “tempesta perfetta”. Una “tempesta perfetta” con la quale coloro che hanno vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come frutto di una loro sconfitta storica possono vendicarsi di quella sconfitta e travolgere il frutto della lotta di liberazione, cancellando, con l’unità della Repubblica, l’architettura dei poteri e la garanzia dei diritti.

La Costituzione italiana, forte del suo impianto antifascista, ha resistito ad un’aggressione durata oltre trent’anni e ad una serie di riforme sbagliate che hanno sfigurato l’ordinamento democratico e minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, ma adesso siamo arrivati all’assalto finale.

Ci troviamo ad un appuntamento con la Storia. Dobbiamo mobilitare tutte le energie per difendere la cittadella della nostra democrazia. Altrimenti usciremo sconfitti tutti e sarebbero sconfitte la fede e le speranze, della gioventù europea che hanno animato la Resistenza. Dobbiamo chiederci, con Thomas Mann: “tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”