Il disegno di legge Gelmini è inaccettabile e va fermato. È stato un grave errore consentire al governo di introdurre all’ultimo istante come legge collegata al Def, e quindi alla legge di Bilancio, un disegno di legge sull’Autonomia Regionale Differenziata, di cui il governo stesso non aveva mai discusso, nessuno sapeva nulla, tranne la ministra Gelmini che lo ha elaborato in totale segretezza insieme a pochi presidenti di Regione. Un metodo degno dei servizi segreti, non di un ministro. Una legge collegata vuol dire che il governo si impegna a fare approvare, con le blindature proprie della legge di bilancio, questo provvedimento. In altre parole, un impegno preso al buio e a cui la ministra responsabile ha risposto preparando una polpetta avvelenata, con la complicità dei presidenti citati.
La maggioranza che sostiene questo governo sembra avere sottovalutato che è in corso da tempo una pressione della Lega, in particolare dei presidenti (non governatori, che in Italia non esistono) di Veneto e Lombardia, e di altri settori politici, a partire dal presidente della Regione Emilia Romagna, per arrivare ad un provvedimento di legge che trasferisca poteri e soprattutto risorse ad alcune regioni su materie che invece debbono restare ad ogni costo unitarie e nazionali, come certamente deve avvenire per scuola, università e ricerca. Anche l’ambiente, l’energia, le grandi infrastrutture nazionali, le comunicazioni fondamentali non sono frazionabili a piacere.
La solita “manina” ha scritto all’ultimo momento questo impegno al numero 1 ed è giunto il momento per la maggioranza di parlare chiaro e pronunciarsi senza equivoci, prima che sia troppo tardi. Non è vero che i referendum di Lombardia e Veneto hanno detto sì a questa svolta. La Corte costituzionale ha bocciato i quesiti secessionisti e perfino il voto della maggioranza degli elettori del Veneto ha chiesto solo più autonomia, ovviamente nel rispetto delle scelte nazionali. Del resto, una Regione, anche volendo, non può rescindere unilateralmente i legami con il resto della nostra Repubblica, né in toto né in parte, perché restano decisioni attribuite a tutto il corpo elettorale nazionale.
La furbata, in questo caso, inizia attribuendo ai referendum regionali un significato simil secessionista per ottenere poteri oltre i confini costituzionali, o almeno interpretandoli ben oltre il significato che possono assumere e soprattutto attribuendo la decisione fondamentale ad un accordo diretto tra i 2 esecutivi, il governo da un lato e la presidenza della Regione interessata dall’altro, per arrivare ad un provvedimento deciso tra “simili” che dopo diventerebbe impossibile modificare senza l’accordo di entrambi gli esecutivi: nazionale e regionale. Una vera e propria blindatura. Hanno ragione Bersani ed Errani, predecessori dell’ineffabile Bonaccini, che questo percorso taglierebbe fuori dalle decisioni il parlamento, il cui ruolo verrebbe relegato al solo accettare o respingere l’accordo raggiunto tra gli esecutivi, ovviamente facendo balenare per convincerlo il ricatto della caduta del governo e del voto anticipato.
Questo accordo tra il governo e la singola Regione non potrebbe neppure essere sottoposto a referendum abrogativo perché considerato alla stregua di un accordo tra governo e rappresentanti di una confessione religiosa, cosa obiettivamente lontana dalla realtà, a meno di considerare la secessione totale o parziale di una o più regioni una religione. È vero, l’errore ha radici antiche e multiple. Risale alla formulazione del titolo V adottata nel 2001 dalla maggioranza di centrosinistra, poco prima delle elezioni politiche, che si è rivelata – come molte delle modifiche alla Costituzione del 1948 – verbosa e sbagliata, dando per di più vita a un contenzioso senza fine presso la Corte costituzionale tra Regioni e Stato sui poteri concorrenti. Questa accentuazione esasperata del decentramento dei poteri verso le Regioni contraddice anche la lettera del titolo V del 2001 perché relega in una posizione subalterna i Comuni, il cui ruolo nel rapporto diretto con le comunità dei cittadini è insostituibile. L’autocritica sarebbe sempre utile.
Comunque sia l’esperienza del Covid ha messo a nudo che la regionalizzazione della gestione della sanità ha finito con il dare vita a veri e propri sistemi sanitari regionali, molto diversi tra loro, i cui difetti sono tra le cause non secondarie delle enormi difficoltà ad affrontare una pandemia inquietante e non risolta come il Covid nelle sue diverse evoluzioni. Chi ha distrutto la medicina di base a favore del privato ha creato le basi per una pressione insostenibile verso gli ospedali e ha avuto una scarsa capacità di attuazione delle misure sanitarie contro la pandemia decise con i provvedimenti di emergenza, creando ulteriori diseguaglianze tra i cittadini del nostro paese, che a seconda della residenza hanno finito per avere diritto a sistemi di cura molto diversi tra loro.
Non si tratta più solo di quello che è stato chiamato, in modo dispregiativo, turismo sanitario dal Sud al Nord alla ricerca di cure adeguate, che ha portato a dilatare le sedi di cura del Nord per ottenere introiti extra anziché portare esperienze e know how dove ce n’è bisogno. Ma di un diverso diritto alla salute a seconda della propria collocazione territoriale. Eppure, tante esperienze per fare fronte ai momenti difficili della pandemia, portando malati da un capo all’altro dell’Europa, dovrebbe avere insegnato che occorre aprirsi e non chiudersi nel proprio orto di casa per fare fronte a nuove sfide. Anzi, semmai è l’Europa che ha giocato un ruolo importante nel procurare strumenti di contrasto alla pandemia.
L’esperienza fatta nel settore della sanità consiglia di tornare ad un vero sistema sanitario nazionale, la cui regionalizzazione ha creato tali diversificazioni da prefigurare diversi sistemi sanitari regionali con conseguenti diritti esigibili diversi tra i cittadini a seconda delle regioni di appartenenza. Basta pensare al settarismo ideologico che ha portato alcune regioni a ritardare e contrastare in ogni modo la possibilità di malati che hanno deciso di morire, perché ridotti in condizioni di vita inaccettabili, di essere costretti a scegliere di morire con sedazione profonda per gli ostacoli frapposti alla attuazione delle leggi. Oppure atteggiamenti estremisti antiaborto che ricordano le tremende differenze che stanno emergendo tra gli stati americani, solo che in Italia non esiste la stessa forma istituzionale.
Scuola, Università, Ricerca debbono essere visti come la sede di un diritto fondamentale di tutti i cittadini (o futuri tali) per avere la possibilità di arrivare fino al massimo grado di istruzione. La Repubblica ha l’obbligo di rimuovere le disuguaglianze che impediscono ai cittadini di esercitare questi diritti fondamentali, comprese le differenze territoriali che non sono certo secondarie. Va sottolineata l’importanza della scelta delle organizzazioni più rappresentative della scuola di sostenere la proposta di legge di iniziativa popolare per modificare gli articoli 116 e 117 della Costituzione, evitando in questa fase di imbarcarsi in una complicata modifica di tutto il titolo V.
Questa proposta di legge di iniziativa popolare costituzionale, primo firmatario Massimo Villone, ben scritta e compatta, ha l’obiettivo di rimuovere i difetti pericolosi del titolo V che consentono a chi vuole stravolgere il nostro sistema politico e sociale di muoversi in una linea pericolosa. Questa proposta di legge ha il sostegno di oltre un centinaio di professori di diritto costituzionale, di intellettuali di varie discipline, del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale e punta a evitare che la semplice cancellazione del terzo comma dell’articolo 116 lasci in vita il non meno pericoloso articolo 117, che elenca la pletora di poteri concorrenti che potrebbero sempre essere oggetto di una forzatura per arrivare a passare poteri dallo stato alle Regioni senza neppure la possibilità di una norma di tutela dell’interesse nazionale.
Nel 2001 fu un errore cancellare la priorità dell’interesse nazionale che c’era nel testo costituzionale precedente, relegato ad un intervento per correggere dopo o in forza di poteri eccezionali come nel caso della pandemia. La proposta di legge di iniziativa popolare, già depositata in Cassazione e sotto la quale presto inizierà la raccolta delle firme, affida un ruolo decisivo al parlamento per decidere che i poteri delegabili riguardano particolarità regionali non le scelte nazionali e puntano ad eliminare la legislazione concorrente inerente scelte e diritti fondamentali della Costituzione. Inoltre, dovrà essere sempre possibile ricorrere sia al referendum confermativo iniziale, come per le norme costituzionali che all’abrogazione attraverso referendum nazionale delle norme relative al decentramento dei poteri alle regioni. Non basta la definizione dei Lep, di cui si parla da almeno venti anni a proposito e a sproposito. Occorre definire livelli uniformi di prestazioni che riguardano diritti fondamentali in tutto il territorio nazionale, esigibili da tutti i cittadini, in qualunque parte del territorio nazionale, superando la spesa storica e individuando gli interventi di riequilibrio a favore delle aree più disagiate.
La proposta di legge di iniziativa popolare punta a raccogliere 50.000 firme per essere presentata al Senato, il cui regolamento garantisce che venga discussa in aula nel giro di qualche mese, come è già avvenuto per la continuità territoriale da inserire in Costituzione per superare lo svantaggio dell’insularità. Questo costituirebbe un controcanto di rilievo all’asse Gelmini/Zaia/Bonaccini. Naturalmente la proposta verrà presentata anche alla Camera, ma il suo impatto parlamentare per regolamento è meno certo che al Senato. Un dibattito pubblico obbligherebbe tutti i partiti e i singoli parlamentari a discutere e a decidere in merito ad una proposta che ha l’obiettivo di porre il problema in modo da costringere tutti ad assumersi le loro responsabilità.
Non basterà da sola a fermare il disegno di legge della Gelmini che è evidentemente stato concordato con settori della Lega e delle Regioni interessate con l’obiettivo di forzare proprio in questa fase finale della legislatura per avviare l’agognato disegno presecessionista vagheggiato da Zaia e c. Non ha torto Viesti quando parla di tentata secessione dei ricchi. Si tratta infatti di un tentativo delle regioni che si ritengono economicamente più forti di ottenere la possibilità di fare da sole, in rapporto con altre aree d’Europa a cui guardano come riferimenti, lasciando al loro destino le regioni con maggiori difficoltà.
Non si rendono conto che il mondo sotto la pressione della guerra sta cambiando con grande rapidità e siamo al limite di una crisi economica e sociale grave, molto di più di quelle del 2008 e del 2020, che sta ridisegnando l’Europa e il mondo. Il fai da te regionale è semplicemente patetico nel nuovo quadro mondiale. Perfino l’Europa fatica a trovare un ruolo adeguato e autonomo in questa situazione, l’idea di ritagliarsi uno spazietto territoriale è subalterna e perdente, dall’ambiente che è problema globale, al futuro economico che dovrà confrontarsi con sconvolgimenti che neppure siamo in grado di valutare.
Atteggiamenti lassisti verso le richieste dei fautori di un regionalismo senza rete sono fuori da ogni possibilità di risposta reale ai problemi di fondo, a partire dalle scelte pace o guerra, blocchi contrapposti o dialogo.
Occorre unire le energie che contrastano il disegno che ciecamente punta a creare isolotti sparsi nel mare di un mondo difficile e pericoloso.
Occorre unire le energie che contrastano il disegno di legge Gelmini per bloccarlo e risalire la china di un PNRR e di uno sviluppo che ha proprio nella mancanza di interventi adeguati nelle aree più deboli il suo tallone di Achille. L’adesione alla Proposta di legge è aperta, il sostegno non può che essere iniziativa politica. La ministra Carfagna aveva dato l’impressione di volere rappresentare il Mezzogiorno ma a ben vedere per ora si è accontentata di valorizzare i Lep nella versione di un paio di circoscritte eccezioni che non possono rappresentare in alcun modo un modello per il resto dei problemi da affrontare, che comporterebbero uno spostamento di risorse formidabile a danno del Mezzogiorno.
Carfagna dovrebbe associarsi al ministro Speranza che ha dichiarato che voterà contro il ddl Gelmini, se mai arriverà in Consiglio dei Ministri. In ogni caso i parlamentari debbono bloccare questa deriva pericolosa e inaccettabile.
Il disegno di legge su cui inizia la raccolta delle firme ha l’ambizione di dare un quadro chiaro delle ragioni che rendono inaccettabile qualunque tentativo più o meno mascherato di secessione nel nostro paese ed è una grande occasione per sviluppare qualcosa di più di un rifiuto ma affrontando con serietà e competenza i nodi politici e istituzionali che l’autonomia differenziata pone a tutti.
Zaia ha scritto un libro: Ragioniamoci. D’accordo, ragioniamoci ed evitiamo forzature e furbate come il disegno di legge Gelmini che deve essere collocato nel posto giusto: il cestino della storia.