Alfonso Gianni in Eccoci settimanale di Jobsnews online)
L’infiammata conferenza stampa tenuta ieri sera da Giuseppe Conte con una aggressività insolita non va solo interpretata come una flessione alle pressioni dei Cinque Stelle da un lato e come un ruvido, quanto probabilmente inutile, richiamo al senso di responsabilità dell’opposizione di destra. Se ha un pregio è quello di ridimensionare l’entusiasmo del tutto fuori luogo sparso nelle prime ore dal ministro Gualtieri sugli esiti dell’Eurogruppo virtuale del 10 aprile. Il secondo tempo della partita si giocherà il 23 aprile, ma il primo tempo, per rimanere nelle metafore calcistiche usate dal nostro ministro dell’economia, non è affatto andato bene per i paesi che si contrapponevano al fronte del rigorismo capitanato da Germania e Olanda.
La ragione è semplice. Il punto discriminante era la messa in campo o meno degli euro o coronabonds che dir si voglia. Ma nel documento finale non compare neppure la parola. Nella parte dedicata al Recovery Fund, la soluzione voluta in particolare dalla Francia e sostenuta dall’Italia, si dice solo che si è convenuto “di lavorare su un fondo di recupero … temporaneo, mirato e commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi … fatte salve le indicazioni dei Capi di governo le discussioni sugli aspetti giuridici e pratici di tale fondo, comprese le sue relazioni con il bilancio dell’Ue, le sue fonti di finanziamento e gli strumenti finanziari innovativi, coerenti con i trattati dell’Ue, prepareranno il terreno per una decisione”. Quindi tutto è rimandato al Consiglio europeo del 23 aprile in una situazione di tortale incertezza.
Sappiamo che il fronte del rigore non voleva neppure che si usare il termine “lavorare” riferito al da farsi sul Fondo di recupero, che avrebbe preferito un termine ancora più vago, ma ciò che purtroppo conta è che il termine bonds è escluso e la dichiarazione della Merkel contraria ai bonds è salva. Come si faccia a presentare tutto ciò come una vittoria è francamente incomprensibile. Si tratta di un compromesso al ribasso, di un brutto accordo. E non è detto che le condizioni in cui ci si troverà il 23 aprile saranno migliori. In sostanza il nocciolo della questione, ovvero la mutualizzazione dei rischi del debito non è passata.
Abbiamo invece un Mes, cui il governo italiano dice che non ricorrerà come ha ribadito con foga Conte, che prevede la non condizionalità per spese sanitarie “dirette o indirette” – ma chi sarà in grado di porre una linea di demarcazione fra le une e le altre? -, mentre queste tornano ad agire su un utilizzo dei prestiti per la ripresa economica. La condizionalità non è evitata, solo limitata, ma con un meccanismo assurdo. Si presuppone infatti che passata la pandemia, tutto torni come prima e gli indirizzi economici e la conseguente spesa per la ripresa ritorni sui vecchi cardini.
Una formulazione che esclude in partenza qualsiasi volontà di trasformazione o di semplice modificazione del modello di sviluppo economico. Per fare solo un esempio, le spese per dotare il nostro paese di un servizio sanitario nazionale efficiente in ogni angolo dello stivale e pronto a sopportare emergenze sanitarie sempre più frequenti, non può essere catalogato semplicemente some spesa sanitaria, ma come un investimento in difesa di un diritto primario che ha la forza di indirizzare e sviluppare l’intera economia per finalità diverse di quelle del passato.
Se si guarda poi alla modalità e all’entità degli interventi previsti dal progetto Sure per il lavoro e dalla Bei per le piccole e medie imprese il quadro non migliora. Complessivamente è prevista una spesa che non supera i 500 miliardi. Ma ce ne vorranno molti di più. Lo stesso Conte ha detto almeno 1500 e si è tenuto basso. Le dimensioni di questa crisi sono mondiali, ancora più ampie di quella, tutt’altro che smaltita in Europa, che partì nel 2007/2008. Non si intravedono né termini né vie d’uscita, anche perché legata alla sconfitta del virus che solo la scoperta e la libera diffusione di un vaccino possono garantire.
Ed è una crisi che si accanisce sia sul lato della domanda che dell’offerta. Per l’Europa l’arretramento del Pil medio non sarà inferiore, nella migliore delle ipotesi dei vari centri studi, al 10% alla fine dell’anno in corso. Quindi bisogna intervenire sul fronte delle imprese con un grande piano pubblico coordinato a livello europeo e contemporaneamente e subito con un sostegno universale del reddito delle persone. Le quantità dei miliardi che servono hanno un ordine di grandezza di migliaia non di centinaia. Per questa ragione se l’Europa non vuole disintegrarsi è necessario l’intervento di uno strumento comune di debito che distribuisca il rischio tra tutti i membri dell’Unione mettendoli così al riparo da speculazioni di ogni genere.Gli eurobonds sono perfettamente compatibili con i trattati europei. Non richiedono modifiche né particolari forzature, ma solo una volontà politica che però manca.
Alcuni commentatori hanno fatto ironie mal riposte sul concetto di solidarietà, sostenendo che non lo si può applicare alle vicende economiche. Lasciamo da parte un attimo il fatto che una simile convinzione nasconde una visione della società prigioniera del peggiore modello capitalistico. Essa è falsa anche in base a un ragionamento di pura convenienza economica. Con la rinascita dei protezionismi, con la guerra dei dazi, con il First America di Trump (primo importatore di merci tedesche) e la scelta cinese di puntare sul mercato interno (la Cina è il principale partner commerciale della Germania) dove finiranno le merci tedesche da esportare, colonna dorsale di un’economia mercantilistica come quella teutonica, se il mercato europeo si sfarina, in un quadro già segnato dalla Brexit? Basterebbe questa considerazione per evidenziare tutta la cecità della classe dirigente tedesca. Eppure gli avvertimenti non sono mancati. Nelle scorse settimane oltre 600 economisti a livello mondiale si sono espressi per una soluzione tipo eurobond; così hanno fatto economisti e intellettuali tedeschi,da Habermas a Honnet, fino all’Istituto di economia di quel paese. Ma la ragione non ha prevalso. Come dicevano i latini “Quos deus perdere vult dementat prius”.
Certo la soluzione ideale richiederebbe che la Bce diventasse effettivamente un prestatore in ultima istanza. Infatti questo obiettivo non è affatto alternativo a quello degli eurobonds ma si può ottenere se la Bce garantisce l’acquisto comunque dei titoli emessi qualora essi non venissero assorbiti dal mercato privato. Ma intanto riuscire a mettere in campo concretamente i coronabonds spezzando la resistenza del fronte rigorista il 23 aprile sarebbe un passo decisivo in questa direzione.
Basterebbe? No serve un controllo sui movimenti di capitale, una profonda riforma del prelievo fiscale che riduca la crescente divaricazione dei redditi, un vero piano europeo di investimenti in settori innovativi e ambientali, insomma un social-green – new-deal, che per funzionare deve garantire non solo lavoro ma che nessuno sia privo di reddito.
La risposta deve essere europea – come minimo – date le dimensioni mondiali della crisi. Ciò non significa che ogni paese non debba fare la sua parte. Qualcosa si era mosso perfino da noi. Dall’interno del Pd è partita una proposta sensata. Quella di un contributo di solidarietà sui redditi al di sopra degli 80mila euro lordi annui prelevato in modo progressivo e moderato sulla parte eccedente quel limite. Una cosa analoga venne fatta dal primo governo Prodi quando si entrò in Europa e incontrò il favore dei cittadini. Invece ora i vertici del Pd non difendono con convinzione questa proposta, che pure arriva da loro parlamentari, e altri gridano, del tutto a sproposito, alla introduzione di una patrimoniale. Non lo è, anche se di quest’ultima ci sarebbe bisogno, non per via emergenziale, ma nel quadro di una riforma fiscale