Alfonso Gianni (Eccoci 21 marzo 2020)
Il titolo di apertura della prima pagina de Il Sole24Ore di venerdì diceva (quasi) tutto della situazione economico-sanitaria del Paese: “Energia, i consumi crollano come nel ‘43”. In effetti la domanda di gas, petrolio e corrente elettrica è caduta di oltre il 10%. Fu così anche nel 1943 quando l’Italia venne lasciata in balia dei nazisti e dei repubblichini di Salò, mentre si organizzava la resistenza armata che ci portò alla democrazia. Fu assai minore la discesa dei consumi energetici nel terribile biennio 2008-2009, non superiore al 5,7% nel secondo dei due anni. L’Organizzazione internazionale del lavoro stima che questa crisi lascerà una scia di 25 milioni di disoccupati in più.
I consumi di energia sono destinati a scendere ancora di più nei prossimi giorni non solo perché il picco dell’epidemia è ancora da raggiungere, e nessuno può dire con ragionevole previsione quando ciò avverrà, ma anche perché è giusto – come si sta chiedendo da più parti – che i luoghi di produzione non strettamente legati alla emergenza epidemica cessino temporaneamente di funzionare, anziché essere un luogo di pericolo per la salute dei lavoratori e dei cittadini, vista la quasi impossibilità di garantire le minime condizioni di sicurezza per evitare contagi.
In sostanza, quindi, l’attuale crisi, più che paragonarsi a quella che si sviluppò dai sub-prime americani, va accostata al periodo postbellico. A differenza del crollo della Lehman Brothers, la crisi attuale non ha il suo focus nella finanza (anche se pure allora la causa primigenia risiedeva nei bassi redditi che portavano alla insostenibilità dei mutui), ma direttamente nell’economia reale, sia dal lato della produzione che da quello del consumo.
Ed è su questi due versanti che bisognerebbe contemporaneamente intervenire. Questa è la ragione per cui le misure monetarie possono poco, o comunque molto meno che nel passato. Basta guardare agli Stati Uniti. Malgrado l’imminenza delle elezioni presidenziali alle quali nessun presidente in carica ansioso di rielezione vorrebbe giungere nel pieno di una crisi economica, le mosse della Fed, tanto sollecitate da Trump, non hanno scaldato i cuori – posto che esistano – di Wall Street. Il 15 marzo la Federal Reserve annunciava un nuovo taglio dei tassi, portandoli quasi allo zero, e la ripresa del Quantitative Easing per 700 miliardi. Il giorno dopo i principali indici azionari Dow Jones, Nasdaq, S&P 500 perdevano dodici punti percentuali.
Un po’ meglio le cose sono andate in Europa, a seguito delle decisioni della Bce. Malgrado la famosa gaffe della sua Presidente, la Bce ha assunto decisioni non da poco: in sostanza un QE da circa 1.100 miliardi fino alla fine dell’anno in corso, secondo tre programmi: quello dal simpatico acronimo inglese Pepp di 750 miliardi, il programma già in corso di acquisti di titoli per 180 miliardi da marzo a dicembre e l’aggiunta di altri 120 miliardi, più naturalmente il reinvestimento delle attività in scadenza. In questo caso gli effetti si sono fatti sentire. Le Borse principali giovedì hanno chiuso in attivo (Milano + 2,29%, Parigi +2,64%, Francoforte + 2%), mentre lo spread è sceso di una cinquantina di punti e si sono ridotti anche i rendimenti dei Btp decennali. Come si vede effetti positivi sì, ma non travolgenti.
I bazooka sono quindi un’arma spuntata. Le politiche monetarie, per quanto disinvolte, non rianimano l’economia reale, anche perché si limitano a svuotare la pancia delle banche dai titoli che vi giacciono. D’altro canto, a fronte di un calo di quasi un terzo del valore delle borse mondiali, la Bce, che già si muove su tassi negativi, non poteva non assumere dei provvedimenti, una volta che la stessa Fed l’aveva preceduta. L’effetto collaterale è che l’euro ha raggiunto la quasi parità con il dollaro: ora, ai minimi da tre anni, un euro vale 1,07 dollari. La moneta verde torna ad essere un bene ambito.
Come si è visto, malgrado l’enorme inondazione di liquidità, l’inflazione è rimasta sostanzialmente al palo. Quel rapporto fra crescita della moneta in circolazione e incremento dell’inflazione su cui si giocò lo scontro tra la sinistra e la destra negli anni ottanta del secolo scorso, con la vittoria di quest’ultima, è decisamente alle nostre spalle.
L’attuale crisi, paragonabile a un periodo postbellico, va affrontata non solo con nuovi strumenti, ma soprattutto con un cambiamento dei paradigmi su cui è fondato il pensiero e le politiche economiche operanti. Ursula Von Leyen venerdì ha annunciato la sospensione del Patto di Stabilità. Sospensione non significa annullamento e neppure cambiamento dei famigerati vincoli del 3% e del 60% che tutti più o meno sforeranno in ogni caso. Ma vuole comunque dire che uno dei principi fondanti il Patto di Maastricht non solo non è utile, ma è di ostacolo al superamento di crisi gravi quando queste si manifestano. Quindi va radicalmente ridiscusso e cambiato a fondo.
Molti economisti delle più svariate tendenze hanno sottolineato la necessita che la Ue dia vita a Eurobond, ovvero ad obbligazioni il cui rischio è coperto dall’insieme dell’Unione europea. Quella che era una proposta teorica oggi è sul tavolo di Bruxelles, L’ottimismo è vietato, ma è chiaro che nel pensiero unico di Maastricht si è aperta una falla che non può essere colmata ritornando alle vecchie logiche rigoriste. Per fare ripartire l’economia reale, per produrre cose che non inquinino l’ambiente – come si vede i casi di maggiore concentrazione epidemica in Europa sono anche quelli di più intensa industrializzazione –, per ricostruire le strutture del welfare state, a cominciare dalla sanità ove si misurano dolorosamente i guasti di una privatizzazione scellerata, è necessario un forte e ben diretto intervento pubblico. Quindi un bilancio europeo degno di questo nome per quantità e spendibilità e una possibilità di spesa da parte degli stati non imbrigliata da assurdi vincoli.
Non solo, ma poiché la crisi si manifesta da due lati, quello della domanda e quello dell’offerta sarà necessario costruire posti di lavoro in settori innovativi e contemporaneamente dotarsi di un vero reddito di cittadinanza universale e incondizionato. Un Quantitative easing for the people, come del resto già avviene a Hong Kong e come dovrebbe verificarsi anche negli Usa, stando ai recentissimi annunci. Insomma si tratta di fare arrivare liquidità direttamente nelle tasche dei cittadini e non farla arenare nelle banche.
Da questa crisi si esce o con un forte arretramento su ogni versante o con cambiamenti radicali. Il pericolo da cui dobbiamo guardarci è quello indicato dall’economista Raj Patel “il problema dell’odierna crisi del capitalismo è che a risolverla si candida il capitalismo medesimo”.