Per la sinistra è più la fine che l’inizio di un processo
Alfonso Gianni (il manifesto 14.3.2018)
E’ proprio vero che Dio (o Giove nella versione pagana) acceca chi vuole perdere. Il responso del 4 marzo è stato spietato con la sinistra. Non era inatteso, anche se non in queste proporzioni. Ma questa è un’aggravante per chi non ha saputo leggere i processi che venivano avanti da diverso tempo. La prova controfattuale non c’è ma potrebbe venire in soccorso almeno il buon senso: se alla sinistra del Pd si fosse riusciti a costruire una sola lista, unitaria seppur con inevitabili differenze, si sarebbe almeno evitato di disperdere qualche centinaia di migliaia di voti. Forse si sarebbe dato un segnale di inversione di tendenza avverso alla frammentazione, tale da motivare o rimotivare al voto più d’uno. Forse. Era certo difficile costruire una lista simile, ma non impossibile. Non stava scritto in alcun destino, per quanto cinico e baro, che ci si dovesse presentare a un elettore già colmo di motivati sospetti e rancori, oltre che deboli anche divisi e tra di noi rissosi. Non ha prevalso l’impossibilità, ma la non volontà, più o meno palese, i veti incrociati, come si suole dire, dei presunti gruppi dirigenti. Tanto è vero che neppure di fronte alle macerie di adesso si nota qualche resipiscenza. Ancora non si comprende o meglio – facendo salva l’intelligenza di ognuno – non si vuole accettare che questo 4 marzo rappresenta più la melanconica fine che non l’inizio di un processo. Dall’autoreferenzialità della politique politicienne, così come dall’autorappresentazione delle lotte sociali non viene né una sufficiente resilienza sul terreno elettorale, né tantomeno la costruzione di una sinistra politica, attiva nelle istituzioni come e soprattutto nella società. La parola “sinistra” nell’immaginario collettivo ha perso di senso, al punto da non venire nemmeno usata più per connotare i simboli elettorali. Non ovunque è accaduto così. In altri punti del mondo o di questa nostra Europa, vi sono luoghi ove a quel nome corrispondono ancora in modo riconoscibile idee, comportamenti, forze politiche. Ma accade nel paese la cui storia, nella fase centrale del secolo scorso, è stata segnata dalla presenza del più grande partito comunista dell’occidente. Ciò che appare un paradosso spiega invece quello che è avvenuto. La rivoluzione conservatrice del neoliberismo non avrebbe potuto trionfare così facilmente nel nostro paese, se non avesse potuto in primo luogo affondare il coltello nel ventre molle dei gruppi dirigenti di una sinistra che ha assorbito, in una sorta di progressivo autoavvelenamento, a tal punto le idee di quello che era il suo avversario, da portarvi persino originali contributi, come il social-liberismo, che ha cercato di mitigare i feroci meccanismi di accumulazione con un po’ di redistribuzione. Ma le politiche di austerity, consacrate da noi perfino con la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, hanno tolto ogni velleità anche in quel senso. Inutile stupirsi se gli operai di Taranto o del Sulcis votano massicciamente per i 5Stelle, mentre a Nord già da tempo la Lega sfondava anche nei punti forti del sindacato, e nei distretti industriali del Centro Italia il Pd crolla. Non è solo la promessa di un reddito – non di cittadinanza ma più semplicemente “un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo” secondo il ministro in pectore Tridico – né solo la penetrazione di pulsioni nazionalistiche e xenofobe anche nelle classi lavoratrici a produrre quell’esito elettorale. Piuttosto il fatto che gli operai da attori di un processo sociale sono diventati pubblico, per giunta considerati come quelli delle ultime file. L’esito del voto ha solo evidenziato e accelerato una trasformazione in atto da tempo, entro cui si consuma il destino della stessa sinistra d’alternativa. Il tentativo di stravolgere la Costituzione è stato respinto. Ma le forze che l’hanno proposto lo rivendicano e ne minacciano la riproposizione a breve, come ribadisce Renzi in una recente intervista al Corriere della Sera. Il finanzcapitalismo non da oggi si è scisso dalla democrazia. Ne vuole e ne può fare a meno. Gli basta mantenere in piedi un simulacro. Qui sta la radice del presunto primato della governabilità sulla rappresentanza. In questo quadro non possono esistere a lungo movimenti o forze antisistema. Nel breve volgere di pochi mesi, sia nella Lega che nei 5Stelle, sono venute meno o si sono fortemente ammorbidite le spinte secessioniste e antisistemiche. Così come l’antieuropeismo. Per questo i mercati finanziari non hanno mostrato alcuna fibrillazione né prima né dopo il 4 marzo. E il temutissimo spread si è mantenuto molto al di sotto dei livelli di guardia. Lo scontro, con buona pace degli editorialisti del Sole24Ore, tra l’Europa di Ventotene e quella di Visegrad non c’è stato perché la prima non è mai stata in campo, essendoci quella reale di Maastricht e del fiscal compact. E il compito di una sinistra d’alternativa è come combattere decisioni e direttive di quest’ultima, senza dare spazio alle pulsioni filoVisegrad. Sarà il tema delle prossime elezioni europee. Proprio per tutti questi motivi appare stravagante che a sinistra del Pd si discuta prioritariamente come atteggiarsi rispetto al governo che verrà, per di più con una simile modesta rappresentanza parlamentare che la ridurrebbe a forza di complemento del vincitore. Se qualcuno pensa di scavalcare il Pd quanto a “responsabilità” è fuori strada. Il problema è costruire la sinistra, e prima ancora ridare a questa parola senso. Revelli ci invitava a ricominciare a pensare, proponendoci una celebre citazione di Montale. Ma farlo in modo disperso e contrapposto sarebbe poco utile. Credo che questo giornale abbia le carte in regola per prendere un’iniziativa in questo senso. Perché, sempre citando un Montale più tardo, a sinistra siamo come “Una tabula rasa; se non fosse / che un punto c’era, per me incomprensibile, / e questo punto ti riguardava” (il corsivo è del poeta).